Quando Carli scrisse il futuro della finanza italiana

di Luca Bellardini

Il 7 giugno 1974 veniva promulgata una legge – la numero 216 di quell’anno, in conversione del decreto emanato l’8 aprile – cui va il merito di aver cambiato definitivamente il volto della finanza italiana, sottraendola alla dimensione naïve di un «mercatino fra amici» (secondo la polemica descrizione di Federico Caffè). Tra le diverse novità, la più importante – posta in cima al provvedimento – fu l’istituzione della Commissione nazionale per le società e la Borsa (CONSOB). Di questa venivano definiti la struttura, il funzionamento operativo, i poteri d’intervento per garantire quella che oggi definiremmo “disciplina di mercato”: cioè la trasparenza degli intermediari verso le proprie controparti, soprattutto se indebolite dalle asimmetrie informative. La novità giungeva dopo anni nei quali la sostanziale assenza di un organismo deputato al controllo delle transazioni “pubbliche” aveva fatto sì, appunto, che queste ultime risultassero di fatto “private”. Nonostante i tentativi di regolazione del mercato mobiliare esperiti molti anni prima – in particolare col R.D. 28 aprile 1910, n. 204, focalizzato però sull’emissione monetaria –, la realtà era andata ben oltre l’ormai antiquata organizzazione formale degli scambi, decisamente inadatta al contesto normativo della Comunità europea.

L’epoca storica che vide la genesi di questo provvedimento non era certo tra le più floride: anzi, forse oggi possiamo inquadrarla come una delle più cupe della storia repubblicana, e non solo per gli eventi domestici (dilagava la violenza degli “opposti estremismi”). Gli shock petroliferi – cagionati dal taglio deciso dai Paesi produttori – avevano generato conseguenze valutarie di tale portata da condurre allo smantellamento del sistema monetario istituito nel ‘44 a Bretton Woods. Il culmine di quella fase – cominciata con la sospensione della convertibilità aurea del dollaro (15 agosto ’71) e proseguita con il c.d. Smithsonian Agreement – si era avuto all’inizio del ’73: la svalutazione della divisa americana aveva innescato una guerra valutaria. Sotto il governatorato Carli, la Banca d’Italia aveva compiuto – già molti anni prima – alcuni importanti passi per consentire la fioritura delle attività produttive: per esempio, abolendo quasi ogni restrizione ai movimenti di capitale. Eppure, per quanto competeva al legislatore, andava crescendo il divario normativo dagli altri Paesi europei: compresi quelli – come Francia e Germania – il cui sistema finanziario, ancorché più aperto e variegato del nostro, rimaneva sostanzialmente bancocentrico.

A molti, dunque, appariva chiaro che l’Italia non potesse continuare a tenersi sostanzialmente al di fuori del circuito internazionale: la debole interconnessione non l’avrebbe affatto protetta dagli scossoni dei mercati; anzi, avrebbe aggravato quegli spill-over che già si erano tristemente manifestati, portando alla c.d. “austerità” energetica. Come spesso accade, l’emergenza fece apprezzare le buone idee che – un po’ per timidezza, un po’ per l’opposizione ideologica di alcuni settori della società – erano rimaste a lungo nel cassetto. Oggi la storia si ripete: ci siamo accorti dell’importanza di semplificare l’apparato burocratico e la cornice amministrativa solo dopo il crollo del Ponte Morandi, nonché dopo aver risentito i primi (non certo leggeri) effetti economici della pandemia.

Nell’elaborazione della legge fu determinante il ruolo di Guido Carli. Egli racchiudeva in sé l’unicum di un economista di formazione giuridica chiamato al governo dell’istituto di emissione: proprio per questo, a prescindere dalla sua posizione al vertice di Palazzo Koch, restava una delle voci più ascoltate in materia di ordinamento finanziario. Soprattutto nell’istituzione della CONSOB ebbe una parte fondamentale anche Ugo La Malfa, che pochi giorni prima dell’emanazione del decreto aveva lasciato a Emilio Colombo il ruolo di ministro del Tesoro: ricevuta da Carli una bozza del provvedimento nel novembre 1973, l’esponente del PRI aveva gestito la complessa fase della ricerca del consenso nel governo e tra le parti sociali, cominciando da un passaggio presso il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR).

Oltre a istituire la CONSOB, la legge 216/1974 disciplinava le comunicazioni cui erano tenuti i soggetti intenzionati ad acquisire partecipazioni rilevanti nelle società quotate, nonché queste ultime nell’emissione di strumenti di equity o debito. Si poneva fine, così, a un lungo periodo d’incertezza per le grandi imprese italiane: in particolare se private, giacché quelle controllate dallo Stato (a partire dalle banche) erano assoggettate a un regime in larga misura pubblicistico. Peraltro, l’alea riguardava non soltanto le aggregazioni – sottoposte alla spada di Damocle di un intervento governativo molto più arbitrario di quello oggi consentito – ma anche gli aumenti di capitale, dunque la possibilità per le imprese di ampliare il business rafforzando la dotazione di mezzi propri. La parola d’ordine – già molto popolare nel mondo anglosassone, quasi sconosciuta in Italia – era «trasparenza», il fondamento di ogni presidio a tutela degli investitori (nonché «il migliore dei disinfettanti», secondo il giudice della Corte Suprema statunitense Brandeis). A tal fine, la legge statuiva l’obbligo di certificazione dei bilanci per le società quotate, attribuendo al revisore il compito di esprimersi sulla congruità del prezzo di emissione degli strumenti. Fra questi ultimi, poi, introduceva la categoria delle azioni di risparmio, privilegiate in quanto alla distribuzione degli utili (tanto nella gerarchia quanto nell’ammontare) e destinate a un pubblico di investitori al dettaglio – c.d. “cassettisti” – interessati a conseguire un rendimento economico molto più che a esercitare una qualsiasi influenza sulle decisioni aziendali. Un’altra novità riguardava la disciplina delle obbligazioni convertibili, il primo e più semplice strumento in quella categoria di “ibridi” che oggi riscuote crescente successo. Veniva riconosciuto, dunque, che soggetti diversi hanno interessi altrettanto diversi e non possono essere trattati allo stesso modo: si respingeva un approccio one size fits all che è la cifra di ogni impostazione ideologica e che – purtroppo – oggi ritroviamo in alcune componenti del single rulebook europeo (per esempio nell’«unione bancaria», segnatamente la risoluzione delle crisi), ma che nell’ordinamento italiano non è mai stato confinato alla sola economia.

Inoltre, la legge non soltanto riduceva il carico fiscale sui proventi da capitale rispetto al neo-nato Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), in particolare per le società cooperative e i soggetti di diritto estero – passaggio definitivo verso l’apertura dell’Italia agli investitori internazionali –; ma, addirittura, sanciva la struttura del bilancio civilistico, con particolare riferimento al «conto dei profitti e delle perdite» delle società quotate o emittenti di strumenti quotati. Nel principale strumento di comunicazione tra una società e gli investitori veniva riconosciuta piena cittadinanza alle partecipazioni finanziarie in altre imprese sotto forma di titoli di debito o equity, produttivi di interessi o dividendi. Inoltre, si procedeva a una complessiva ridefinizione del contenuto dell’informativa agli stakeholder, riconoscendo implicitamente che l’attività d’impresa non si esaurisce a quella c.d. “caratteristica” né a finalità meramente “industriali”.

Altre norme riguardavano il funzionamento degli organi di gestione e controllo, soprattutto per le società quotate, aprendo la strada per quella “democrazia partecipativa” cui il d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, c.d. Testo unico della finanza (TUF) darà un contributo fondamentale: inter alia, introducendo le azioni sociali di responsabilità e una più marcata protezione degli azionisti di minoranza. Fu, quella, una fedele esecuzione del “testamento spirituale” dell’ex governatore della Banca d’Italia: non è un caso che il merito sia stato perlopiù di Mario Draghi, successore di Mario Sarcinelli come direttore generale del Tesoro quando Carli era ministro. Come pure non sorprende che oggi la CONSOB sia presieduta da Paolo Savona, un altro dei principali collaboratori di Carli (soprattutto nella stagione al vertice di Confindustria); formatosi dunque su insegnamenti la cui validità è destinata a rimanere intatta negli anni, a prescindere dai mutamenti del settore finanziario.

In dottrina, la legge 216/1974 è stata definita «mini-riforma del diritto societario»: per le ragioni sopra esposte, si tratta di un’etichetta indubbiamente meritata. Carli, pur avendo studiato a fondo le teorie istituzionaliste tedesche, aveva compreso quanto fosse riduttivo vedere l’impresa come il luogo della coesistenza – o, secondo alcuni, del conflitto – tra capitale e lavoro, con la produzione di beni e servizi quale unico risultato o addirittura esclusiva finalità. Piuttosto, affrontò – primo tra i legislatori italiani – i problemi legati alla dinamica tra il «principale» (l’azionariato) e l’«agente» (il management) che proprio in quegli anni incontravano particolare fortuna nella letteratura economica internazionale, ma che negli USA erano emersi già all’indomani della crisi del ’29. In quest’ottica, i diritti dei soci sono diversi ma non meno meritevoli di tutela rispetto a quelli dei dipendenti; e l’impresa non è soltanto un apparato produttivo, bensì il luogo dell’incontro fra interessi finanziari diversi, legati alle dinamiche microeconomiche sottostanti agli aggregati del risparmio e dell’investimento.

Nel biennio 1973-74 l’Italia era traballante, assediata dalle divisioni sociali e dalle turbolenze economiche: c’era disperato bisogno di capitali, ma ancor più della concezione illuminata che ispirò la «mini-riforma». E ad essa dobbiamo necessariamente tornare, se intendiamo sopravvivere alla tempesta.

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