Il cambiamento climatico è la grande opportunità dell’Europa
di Hugo Savoini
Il cambiamento climatico non può attendere. A livello internazionale da anni ormai si discute del tema, ma è necessario passare dalle parole ai fatti rispettando gli impegni presi nella conferenza di Parigi (COP21) del dicembre 2015. In quella occasione, nella Ville Lumière venne firmato il primo accordo globale sul clima: i governi di 195 paesi hanno concordato di mantenere l'aumento della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali puntando a limitarlo a 1,5°C. Purtroppo al momento esiste un significativo disallineamento tra l’ambizione dell’Accordo e la traiettoria sulla quale il mondo si sta muovendo: aggregando gli impegni di riduzione delle emissioni approvati dai singoli governi si stima infatti che l’aumento di temperatura entro fine secolo possa superare i 3°C. Inoltre, con l’ultimo report di ottobre 2018, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dichiara che il clima sta cambiando con una velocità molto superiore alle previsioni: è possibile che già nel 2030 si raggiunga un aumento di +1,5°C. Da questa prospettiva emerge in tutta evidenza la necessità di un cambio di passo per mettere il futuro del pianeta in sicurezza. Se però da un lato è essenziale portare gli sforzi collettivi di mitigazione del cambiamento climatico a un livello ben più elevato rispetto a quello corrente, dall'altro si osserva una preoccupante inazione dei governi. Di fronte ad una minaccia così seria, cosa frena la comunità internazionale dall’intraprendere azioni concrete che assicurino alle future generazioni un pianeta vivibile?
Per rispondere a questa domanda è utile fare riferimento alle cause e alle responsabilità del cambiamento climatico: le cause, come è noto, sono riconducibili all’emissione di CO2 derivante dall’utilizzo dei combustibili fossili come fonti energetiche dalla rivoluzione industriale fino ad oggi. Sulle responsabilità è invece necessario fare un distinguo tra le emissioni di CO2 cumulate e quelle future. Se le responsabilità storiche, ossia dell’anidride carbonica già accumulata nell’atmosfera, sono principalmente dei paesi avanzati, la quantità delle emissioni future, invece, dipenderà in larga parte dalle scelte che nei prossimi anni si compiranno nelle grandi economie dell’Asia, soprattutto Cina e India. La rapidità con cui i giganti asiatici sostituiranno il carbone con fonti energetiche più pulite sarà determinante. I paesi avanzati hanno invece sostanzialmente già raggiunto il picco delle emissioni e stanno progressivamente riducendo l’intensità carbonica dei loro sistemi produttivi; per contro, Cina e India appellandosi al principio sancito dall’articolo 3 comma 1 della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), “(…) common but differentiated responsibility”, continuano a privilegiare il carbone come fonte energetica e, pur investendo pesantemente nelle energie rinnovabili, continuano a incrementare oltremodo le emissioni.
Siamo giunti in sintesi ad una sorta di stallo: le negoziazioni internazionali sul clima nell’ambito dell’UNFCCC vedono da anni la medesima contrapposizione tra paesi industrializzati e paesi emergenti. I paesi avanzati chiedono ai paesi emergenti una maggiore celerità nel raggiungimento del picco emissivo; questi ultimi chiedono ai paesi avanzati, in virtù delle sopracitate responsabilità storiche, un maggiore supporto (finanziario e tecnologico) per la mitigazione e adattamento agli effetti del cambiamento climatico. In questa impasse, resa ulteriormente complicata dalla posizione dell’attuale amministrazione americana, i paesi emergenti non accettano di sottrarre risorse destinate ai propri obiettivi di sviluppo economico per far fronte a un problema di cui si sentono solo in parte responsabili, e i paesi avanzati, già osservando un rallentamento in termini relativi nei confronti delle economie asiatiche, temono che intensificando il ritmo della transizione energetica o fornendo maggiore supporto alla trasformazione dei paesi emergenti possano ulteriormente indebolire la propria posizione competitiva sui mercati globali. Il risultato è una generale e sconfortante inerzia. Dando per scontato che alle intenzioni formali corrisponda la concreta volontà collettiva di trovare soluzioni alla sfida del riscaldamento globale, è possibile porre rimedio a questo stallo? Magari grazie ad un'Europa che riesca ad essere il motore propulsore del cambiamento.
Fin dalla costituzione dell’UNFCC nel 1992, l’Unione Europea si è distinta per sensibilità e impegno sul fronte del cambiamento climatico e grazie a una forte volontà politica è diventata l’area più virtuosa del mondo sul tema ambientale: sono in procinto di essere raggiunti gli obiettivi al 2020; gli obiettivi al 2030 prevedono una riduzione delle emissioni di almeno il 40% rispetto al 1990; a dicembre 2018 la Commissione Europea ha presentato un documento strategico che illustra l’obiettivo di decarbonizzazione completa entro il 2050. Nella politica climatica europea vi sono tuttavia delle contraddizioni e delle criticità che potrebbero ostacolare il raggiungimento dei suddetti obiettivi:
La presenza simultanea di meccanismi di incentivazione delle rinnovabili e un ruolo ancora troppo rilevante del carbone nel mix energetico europeo –nel 2018 il carbone ha alimentato circa un quinto della generazione elettrica dell’UE.
Il sistema di carbon pricing europeo, l’EU-ETS, si è dimostrato inefficace nel dare un adeguato segnale di prezzo alla CO2, in quanto troppo sensibile al ciclo economico.
L’obiettivo di neutralità carbonica al 2050 si basa su un utilizzo diffuso di tecnologie non ancora mature.
Trovare risposte concrete a questi problemi renderebbe molto più incisivo il contenimento delle emissioni europee, consentirebbe al sistema produttivo di cogliere le opportunità economiche insite nella transizione energetica e nella trasformazione verso un modello di sviluppo circolare, consoliderebbe la leadership europea in ambito climatico e legittimerebbe la richiesta di un maggiore contributo dei paesi emergenti alla sfida ambientale, condizione sine qua non per il rispetto degli accordi di Parigi. Su questo fronte, l’Europa potrebbe e dovrebbe fare molto di più ma il principio del rigore di bilancio, pilastro dell’attuale governance europea, impedisce di dedicare alla causa le risorse finanziarie che servirebbero. L’Europa dovrebbe mettere sul piatto della bilancia le implicazioni socio-economiche del cambiamento climatico e la visione ortodossa d’ispirazione mitteleuropea, fondata sulla giusta istanza di equilibrio della finanza pubblica, secondo cui la crescita non può prescindere dal rigore dei conti statali. L’Europa è oggi chiamata a una profonda riflessione. L’occasione è importante e delicata, per certi aspetti straordinaria, perché l’opinione pubblica e i cittadini europei aspettano invano da troppi anni che qualcosa si muova sotto il cielo di Bruxelles.