Bankitalia, un bilancio che ne riflette l'indipendenza
(da tutelare)

di Luca Bellardini

La Banca d’Italia è un’istituzione indipendente. Un presidio dei principii democratici su cui è fondata la Repubblica italiana che sta vivendo una delicata e convulsa fase politica. Ecco perché venerdì 29 marzo, nel presentare il bilancio 2018, il governatore Visco si è premurato di fare alcune osservazioni piuttosto rilevanti sul ruolo di Via Nazionale.

Ha tenuto a ribadire quanto l’indipendenza della Banca sia importante e soprattutto intangibile: se oggi questo concetto è valido in gran parte dell’Occidente (con la vistosa eccezione degli Stati Uniti), lo è ancor di più in un contesto ─ quello del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) ─ fondato sulla separazione delle funzioni monetaria e di vigilanza finanziaria ─ decisamente ben avviate ─ rispetto a un’architettura politica ancora incerta e traballante. Inoltre, Visco è intervenuto con decisione sull’ipotesi ─ avanzata da alcuni partiti ─ di “nazionalizzare” le riserve auree di Palazzo Koch (88 miliardi nel 2018). Un’ipotesi scarsamente realistica, dato che si tratterebbe di un esproprio senza indennizzo condotto ai danni di un ente di diritto pubblico, quale Palazzo Koch rimane nonostante una compagine di soci («partecipanti al capitale») in gran parte di natura privatistica. L’intervento del Governatore non si è fermato qui, spingendosi fino a lanciare un vero e proprio monito alle forze politiche relativamente alla possibilità di utilizzare le riserve auree di Via Nazionale: poiché ─ sulla base delle norme vigenti ─ il Ministero del Tesoro non può partecipare al capitale della Banca, aver sottolineato che i partecipanti non possono vantare diritti sulle riserve equivale a dire che, se anche venisse perseguita una nazionalizzazione (la cui compatibilità con lo statuto SEBC sarebbe tutta da verificare), lo Stato non potrebbe in alcun modo disporre dell’oro. Né per una finalità “nobile” come la riduzione del debito pubblico, né tantomeno per il suo opposto: espanderne lo stock per finanziare politiche in deficit.

Nella sua relazione, inoltre, Visco ha posto più volte l’accento sulla natura pubblicistica dell’istituto: al servizio della tutela del risparmio costituzionalmente garantita, ma autonomo rispetto ai partecipanti. Significa ribadire che Via Nazionale esercita le sue prerogative riuscendo a distinguere bene i propri compiti amministrativi ─ che presuppongono imparzialità ─ dai legami tra l’ente e i possessori del suo capitale, molti dei quali sono soggetti vigilati dalla stessa Banca d’Italia o dall’IVASS (oggi incorporato nella struttura di Palazzo Koch). Un richiamo che smentisce una delle accuse più frequenti ─ nonché più strumentali e infondate ─ rivolte negli ultimi tempi alla Banca: non vigila come dovrebbe a causa dei conflitti d’interesse con i partecipanti al capitale. Anche perché la legge 29 gennaio 2014, n. 5 ─ in forza della quale erano state rivalutate le quote, ferme a un nominale storico palesemente anacronistico ─ prevede che i partecipanti in misura superiore al 3% del capitale ricevano dividendi solo fino a tale soglia e non oltre. Guardando alla compagine sociale fotografata al 17 febbraio ─ record date per ricevere il dividendo 2019 ─ notiamo come ciò sia limitativo dei diritti patrimoniali di Intesa (15,53% del capitale) e UniCredit (12,88%), ma in misura minore anche di Carisbo (6,20%), Generali (4,34%) e Carige (4,03%), quest'ultima in una situazione non certo favorevole (ne abbiamo parlato in un recente articolo). Dato un utile record di 6,24 miliardi e un dividendo di 340 milioni ─ identico a quello degli ultimi anni ─, le somme trattenute perché associate a eccedenze partecipative ammontano a 113 milioni e, insieme ad altri 150, alimentano la riserva ordinaria. Inoltre, i 40 milioni risparmiati rispetto al massimo dividendo distribuibile secondo le attuali politiche di via Nazionale (380 milioni) sono attribuiti a una posta speciale ─ dell’importo massimo di 450 ─ ora a quota 120, visto che la medesima scelta era stata compiuta nei due esercizi precedenti. Tolti questi 530 milioni (cioè 340+150+40), nell’esercizio 2018 restano 5,71 miliardi di utile netto di pertinenza dello Stato italiano, con una crescita che sfiora il 70% (tralasciando il maggior gettito fiscale) rispetto al 2017. Basterebbero questi numeri a smentire chi grida alla “cattura” della Banca d’Italia da parte dei soggetti su cui dovrebbe vigilare, e che invece ─ come nel caso di Carige, posta in amministrazione straordinaria, ma anche di Intesa e UniCredit, gravate da un calendar provisioning dei crediti deteriorati nient’affatto benevolo ─ stanno ricevendo un trattamento piuttosto severo dalla BCE, posta a capo del Meccanismo di vigilanza unico e supervisore diretto degli enti significant. Peraltro, senza che Via Nazionale possa intervenire cambiando le carte in tavola, se non facendo sentire la propria voce nei consessi europei cui è chiamata a partecipare. Anzi, il cambio al vertice di Francoforte ─ previsto per il prossimo 1° novembre ─ potrebbe accontentare quanti chiedono un trattamento più severo verso gli enti creditizi italiani, se alla “colomba” Draghi succedesse un “falco” più vicino alla dottrina dell’austerità. 

In ogni caso, l’utile record registrato dalla Banca d’Italia è destinato ad essere una fugace apparizione dell’esercizio corrente. Con la fine del quantitative easing (QE) ─ definitivamente chiuso il 31 dicembre scorso ─ si ridurrà l’acquisto di titoli pubblici ─ “forzato” dalle operazioni straordinarie della Bce ─ che beneficiava dei bassi livelli di prezzo registrati tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno passati. Inoltre, nell’auspicio che i rendimenti restino ben al di sotto di quel picco, sarà difficile che le nuove emissioni prevedano cedole sostanziose come quelle dei titoli emessi nel 2018. Proprio grazie al QE, il totale attivo di Via Nazionale è salito a 968 miliardi, con un balzo di 31 rispetto all’anno precedente. Un’altra cifra particolarmente significativa è quella relativa ai costi operativi (-2,5%): essi sono diminuiti soprattutto in virtù delle minori spese per il personale (come pure sono calati gli esborsi per il Tfr) legate a un vasto piano di chiusura delle filiali, il cui numero è passato da 97 a 39 nell’arco di un decennio.

Tutti numeri che raccontano l’impegno dei vertici di Bankitalia di tenersi al passo con i difficili tempi che corrono. E che devono essere interpretati anche alla luce del fatto che, proprio mentre il governatore presentava la relazione sul 2018, il presidente Mattarella firmava la legge istitutiva di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema finanziario, esprimendo tutte le sue riserve sull’intento politico di “processare” il medesimo dinanzi all’opinione pubblica. Del resto, l’intervento del Presidente è servito anche a placare gli animi dopo che nei giorni precedenti avevano tenuto banco le polemiche sulle nomine nel direttorio di Palazzo Koch: tutte ─ tranne una ─ sbloccate solo di recente, dopo un lungo tergiversare fra la necessità di confermare una classe di tecnici preparati, da un lato, e la volontà politica di fare tabula rasa, dall’altro. Sembra che una quadra sia stata trovata, finalmente; ma è lecito avere dubbi sulla durata della tregua. Se delegittimare il sistema bancario non fa bene all’Italia (che pure soffre di bancocentrismo nella provenienza dei capitali), delegittimare chi lo vigila ─ sebbene con poteri complessivamente inferiori rispetto al passato ─ è ancora più pericoloso. Se intende riconquistare l’autorevolezza perduta, la politica non può ignorare questa banale verità.