Carige, la punta dell’iceberg? Che cosa succede nel sistema bancario italiano

di Luca Bellardini

In un articolo precedente avevamo sottolineato come il 2019 si accinga ad essere un anno particolarmente critico per il sistema bancario europeo, soprattutto per quanto attiene alla ridefinizione della politica monetaria. In Italia, l’ultima controversia risale a poche settimane fa e riguarda un istituto che – pur non essendo di dimensioni eccezionalmente grandi – ai fini del Meccanismo di vigilanza unico (Ssm) è considerato significante e, dunque, vigilato dalla Bce. Parliamo della ex Cassa di risparmio di Genova e Imperia, oggi nota come Carige. Afflitto da una certa carenza patrimoniale rispetto ai requisiti fissati dal regolatore, l’ente in questione ha visto fallire un aumento di capitale dopo l’altro. Anche l’azionista storico, la famiglia Malacalza, si era tirato indietro dopo aver visto frustrata dall’indisponibilità altrui la propria apertura a rafforzare la dotazione della banca.

Così, la sera del 7 gennaio 2019 il Consiglio dei ministri ha licenziato un decreto – attualmente in fase di conversione – ispirato all’art. 32 Brrd, par. 4, lett. d, che esclude la ricorrenza di «condizioni per la risoluzione» in alcune fattispecie nelle quali un’autorità pubblica – lo Stato o la Banca Centrale – sia intervenuta per stabilizzare la banca in dissesto. Riguardo a Carige, il governo ha previsto due principali linee di sostegno, attivabili fino al 30 giugno di quest’anno: la garanzia del Tesoro – per un importo massimo di 3 miliardi – sulle nuove passività emesse dall’istituto ligure, nonché sui finanziamenti eventualmente concessi dalla Banca d’Italia nell’alveo della emergency liquidity assistance fornita dalla Bce; e la possibilità di sottoscrivere nuove azioni Carige fino a 1 miliardo.

La tensione, però, non sembra destinata a esaurirsi in breve tempo. L’indice che rappresenta la capitalizzazione del comparto bancario italiano superava i 12mila punti soltanto un anno fa, mentre oggi gravita sotto quota 8mila. Nella scorsa primavera le tensioni sullo spread – dettate perlopiù dall’incertezza politica di allora – hanno oggettivamente avuto un ruolo determinante nella caduta, ma non riescono certo a spiegarne la persistenza e anzi l’aggravamento. Gli ottimi risultati degli ultimi stress test (per quanto di estensione limitata) non sono riusciti a invertire la tendenza; né si potrebbe dare tutta la colpa all’inasprimento fiscale per le banche, contenuto nella legge di bilancio attualmente in vigore. D’altronde, molti dei principali istituti italiani hanno annunciato di aver registrato utili in crescita nell’esercizio 2018. Perché, allora, le prospettive di lungo periodo sembrano così fosche?

Una delle ragioni è certamente legata alla trasformazione tecnologica, il cui potenziale disruptive non è ancora emerso del tutto. Si tratterebbe di una rivoluzione in termini di modello di business: meno intermediazione “classica” fondata sul margine d’interesse, molto più risparmio gestito, e una grande incognita sulle commissioni legate all’attività di investment banking (i volumi saranno verosimilmente in crescita, ma le nuove regole discendenti dalla Mifid II ne minacciano la redditività). Inoltre, l’Italia sembra continuare a soffrire di un problema atavico: «tanti capitali, pochi capitalisti», come recita il titolo di un recente libro di Beniamino Piccone. Nonostante le tante riforme liberalizzanti dell’ultimo trentennio, il credito è ancora visto come un settore abbastanza sclerotizzato dalla lunga tradizione pubblicistica, oggi riportata in auge da un certo attivismo legislativo.

Con il decreto Carige, il governo si è assunto un rischio politico elevatissimo. Non c’è dubbio che nel breve periodo l’effetto sia decisamente positivo: la risoluzione della banca avrebbe probabilmente diffuso in tutta Italia, per i detentori di titoli di debito o capitale, il timore di essere assoggettabili a burden sharing. Inoltre, avrebbe inferto un colpo terribile all’economia ligure, già fiaccata dalle conseguenze infrastrutturali del crollo del Ponte Morandi. Alla fine, però, si è comunque rafforzata l’idea secondo cui in Italia le banche non falliscono mai. Il bail-in non fa più paura, ma le ipotesi di bail-out sono tornate a spaventare i contribuenti. Tutto ciò ha un inquietante risvolto: “tranquillizza” quegli amministratori bancari la cui mala gestio è alla base di tanti dissesti, e che sembrano aver pagato molto meno rispetto ai cittadini italiani e alle banche in salute. Oggi, grazie a Brrd e Mifid II, le autorità di vigilanza e controllo hanno gli strumenti per rimuovere le mele marce senza sradicare l’albero: riusciranno a usarli per il bene del sistema economico, senza lasciare troppo spazio al controverso intervento dello Stato?

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