Digitale, al 90% degli italiani manca l'Abc

di Aleksandra Arsova

Nel 1871, a dieci anni dall’Unificazione, l’analfabetismo in Italia era ancora a livelli che oggi giudicheremmo inaccettabili per un paese avanzato: la percentuale di persone incapaci di leggere e scrivere correttamente era pari a quasi il 70% della popolazione. Attualmente il tasso di analfabetismo è vicino allo 0%, grazie soprattutto all’introduzione della scuola dell’obbligo e all’esigenza della lettura e della scrittura per le più basilari attività quotidiane.

Eppure, statistiche alla mano, è sconcertante sapere che più del 90% della popolazione italiana, e più dell’80% dei giovani fra i 16 e i 29 anni, non ha nessuna base di programmazione informatica, il cosiddetto coding. Anche in termini più generali, l’Italia si posiziona sempre tra gli ultimi posti nelle classifiche di competenze Ict: nel 2018, risulta che quasi 1/4 della popolazione (individui o nuclei familiari con almeno un membro fra i 16 e i 74 anni) non abbia mai utilizzato internet; nel gruppo dei Paesi UE-28 dati peggiori si riscontrano solo per Bulgaria, Grecia, Portogallo e Croazia. Similmente, secondo dati del 2017, solo il 44% della popolazione ha competenze digitali di base, ben al di sotto della media UE (57%). Per non parlare poi del mondo del lavoro: sempre nel 2017, solo il 2,6% degli occupati in Italia appartiene al settore Ict, dato inferiore, anche in questo caso, alla media europea di 3,7%.

Se questo è lo stato dell'arte, non resta che chiedersi quanto tempo ci vorrà per colmare il gap di questa nuova forma di analfabetismo. E soprattutto come agire. Il tempo che abbiamo a disposizione è indubbiamente poco perché il mondo dell'Ict avanza veloce in ogni angolo del mondo. Per questo bisogna agire velocemente con una modalità tanto semplice da proporre, quanto difficile da realizzare: è necessario insegnare la programmazione e la logica computazionale sin dalla scuola primaria. Non solo quindi un’educazione digitale passiva, come l’utilizzo di libri digitali o il supporto di internet per l’apprendimento, ma un vero e proprio utilizzo attivo degli strumenti computazionali.

Qualche primo timido passo su questa strada è stato già mosso: l’Università Bocconi, ad esempio, ha annunciato che le lauree triennali includeranno degli esami obbligatori di programmazione. A livello più generalizzato, la cosiddetta riforma della “Buona Scuola” del 2015 include alcune proposte ( #Azione17 e #Azione18 del “Piano nazionale scuola digitale”) che indirizzano specificatamente le competenze e l’alfabetizzazione digitali. Tutto ciò è sicuramente utile. Ma non basta. Non è sufficiente che siano solo le istituzioni di eccellenza e del più alto livello di istruzione, come la Bocconi, a richiedere l’apprendimento di un linguaggio di programmazione. E nemmeno sono sufficienti i buoni propositi della Buona Scuola (nel documento della riforma si legge di workshop sporadici, dell’introduzione dell’animatore digitale, ecc.), che risultano essere soluzioni ancora troppo blande per l’arretratezza in cui riversa il nostro sistema scolastico, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza attiva della tecnologia. Dovremmo osare di più: dovremmo rendere obbligatorio, sin dalle scuole elementari, l’insegnamento di almeno un linguaggio di programmazione. Qualcuno potrebbe anche sostenere che non sia questa la prima o la più importante delle riforme per il Paese. Questo qualcuno potrebbe anche avere ragione, se si prendesse l’istruzione digitale come un elemento isolato e riguardante solamente il campo della scuola. Tuttavia, se si guarda all’intero panorama economico-sociale, si noterà quanto questa proposta sia indispensabile per rispondere in modo davvero pro-attivo alle sfide della globalizzazione e della digitalizzazione.

Procedendo sempre sulla strada dei numeri e delle previsioni, un recente studio di McKinsey sottolinea come, entro il 2030, in Italia circa il 25% dei posti lavoro dovranno subire un cambiamento e/o scomparire col progredire dell'automazione e della tecnologia. Come interpretare questi dati è abbastanza lineare: 1/4 della forza lavoro di oggi non verrà sostituita dai propri figli o nipoti, bensì da macchine e computer. E' questo un problema? Forse. Sarebbe e rimarrebbe un problema se le

nuove generazioni avessero il medesimo bagaglio di competenze di quel 25% che andrà sostituito dalla tecnologia. Non sarà invece un problema, bensì un incentivo al cambiamento, se, e solo se, riusciremo a rendere pronte le nuove generazioni alle richieste del mercato del lavoro moderno. Bisogna dire, infatti, che questo famoso 25% è solo una verità parziale, poiché non racconta che per ogni posto di lavoro eliminato dall'automazione se ne creano altri in ambito ICT. Basti pensare che, già nel 2016, l'Agenzia per l'Italia Digitale osservava un significativo gap tra domanda e offerta in ambito di professioni digitali, soprattutto a livello di laureati. Pertanto, vista l'inadeguatezza dell'istruzione e dei percorsi scolastici, tale gap è destinato ad aumentare. Tutto ciò dovrebbe spaventare. Ma non dovrebbe suscitare quello spavento che porta a introdurre forme più o meno esplicite di robot tax, bensì uno spavento che induce a comprendere la necessità, qui e ora, di una svolta significativa nella nostra offerta formativa. La tassazione sull'automazione dei posti di lavoro potrà essere una soluzione anche relativamente efficace nel breve periodo e coprire parzialmente il costo sociale della tecnologia, ma non potrà mai essere la soluzione definitiva, soprattutto se si vuole risollevare uno dei fattori determinanti della crescita economica: la produttività. Quindi, impegniamoci a vedere la tecnologia come un'opportunità e non come un ostacolo.

Oggi siamo uno dei primi Paesi manifatturieri in Europa, principalmente perché siamo stati molto bravi nei decenni del secondo dopoguerra a trasformarci da un paese di contadini a un paese di operai. Ora, in modo analogo, dobbiamo trasformarci da un paese industriale a un paese digitale, perché i programmatori di oggi saranno gli operai specializzati di domani. Facciamo qualcosa di concreto. Facciamo qualcosa di concreto, partendo dalle basi: l'istruzione. Esattamente come fece l'Italia post-unificazione.

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