Scuola italiana: ragioniamo oltre i numeri
di Bianca Fioramanti
Le scelte politiche e strategiche dei prossimi mesi in relazione ai finanziamenti del Recovery Fund saranno cruciali per l’Italia, come tante volte già abbiamo letto. Questi fondi, se oculatamente utilizzati, potranno fungere da strumento per il rilancio del nostro Paese e riparare alla colpevole e progressiva riduzione degli investimenti in un settore fondamentale quale l’Istruzione per costruire un Sistema Paese efficiente e promuovere la crescita a partire dagli individui, rinnovando e innovando, ove necessario, il sistema scolastico e universitario.
È il momento di adeguare i percorsi di formazione ad un mondo in cambiamento perché la scuola possa tornare ad essere cultura, pensiero critico, consapevolezza civica e, soprattutto, incubatore di eccellenze italiane. Riformare la scuola richiede di non rincorrere per imitazione a paradigmi che non ci appartengono ma avere una visione di lungo termine e sviluppare un modello disegnato alla luce della nostra storia e delle nostre aspirazioni future come Paese.
Ma come sta la nostra scuola oggi? Confrontando i rapporti Ocse Pisa dal 2003 ad oggi, la capacità di comprensione del testo mostra un trend costante, in matematica riscontriamo un miglioramento e poi una stabilizzazione, mentre si osserva un netto peggioramento in scienze dal 2012 ad oggi. In particolare, nel 2018 il livello di istruzione in Italia risulta essere sotto la media nelle prove di lettura e scienze, mentre rimane in linea nel test di matematica. Diversamente, le province cinesi di Pechino, Shanghai, Jiangsu, Zhejiang (B. S. J. Z.) e Singapore ottengono in tutte e tre le sezioni un punteggio medio superiore a quello di tutti gli altri Paesi, seguiti da Macao, Hong Kong. E così la rincorsa prosegue, prima era il modello interdisciplinare e collaborativo finlandese, ora quello cinese rigido e volto alla dedizione assoluta verso l’interesse collettivo.
Senza aprire il dibattito sull’obiettività di queste prove, pure da più parti contestata, ci domandiamo: si può pensare di decretare un indiscusso vincitore e adottare pedissequamente il suo modello? Si può aspirare ad un miglioramento semplicemente attraverso la standardizzazione di un diverso approccio formativo? Le contaminazioni interculturali e le influenze esterne, figlie di un mondo sempre più globalizzato, sono un indubbio arricchimento ma non possono e non devono spingerci a misconoscere il valore della nostra cultura.
Nel tempo, invece, sempre di più abbiamo creduto che la possibilità di un miglioramento risiedesse nell’adozione di un “metodo internazionale”, si è passati quindi dai compiti e le interrogazioni ai quiz a risposta multipla, la cui diffusione è ormai inarginabile. Se è vero che un test come l’Ocse Pisa evidenzia la condizione critica del sistema di istruzione italiano e l’esigenza di un cambiamento, è da tenere a mente che tale cambiamento non può che essere guidato da scelte politiche non casuali e coerenti con la cultura nazionale.
Nell’ultimo anno solo il 40% degli Italiani ha letto almeno un libro, solo il 30% ha visitato un museo, solo il 20% ha partecipato a spettacoli teatrali e meno del 40% della popolazione legge quotidiani almeno una volta a settimana (Istat 2018). Non sono forse questi i dati più tangibili per valutare un’inefficienza nel nostro sistema educativo?
Ancora più importante, la scuola sta perdendo e deve recuperare una funzione di coesione, come leva per contrastare gli squilibri nel tessuto sociale. Dai dati Ocse, con preoccupazione, emerge che esistono profonde differenze regionali e la capacità formativa è molto variabile in relazione alla tipologia di scuola scelta: meglio i licei, più bassi i risultati per Istituti tecnici e professionali. Lo status socio-economico e culturale della famiglia di origine rappresenta ancora un fattore significativo che incide sulle performance degli studenti. In media, i migliori risultati accademici vengono ottenuti da studenti proveniente dai ceti colti, mentre coloro che hanno un più esiguo background rimangono meno performanti. È necessario che la scuola torni ad essere garante dell’equità e promotrice di opportunità, a prescindere da genere, provenienza geografica e condizione familiare di partenza. Occorre che sia un luogo di riferimento per i giovani dove affinare la sensibilità e l’attitudine alla conoscenza, una scuola che sappia promuovere la curiosità e incoraggiare le passioni per far in modo che ogni studente trovi il suo spazio e la sua voce in un percorso di crescita attivo e dinamico.
Si riconosce un grande malus nell’insoddisfazione della classe insegnante, che viene però talvolta erroneamente ridotta ad un mero problema di remunerazione. Al contrario, benché effettivamente lo stipendio dei docenti italiani sia di poco più basso rispetto ad altri Paesi europei, il problema maggiore, origine della frustrazione che riscontriamo oggi giorno, risiede nello scarso riconoscimento attribuito al livello sociale alla figura dell’insegnante. Sono laureati esattamente come un medico o un avvocato, eppure ci è difficile riconoscerli come “persone di successo”. Si deve sviluppare una consapevolezza generalizzata e condivisa della rilevanza dello status di docente in quanto professionista con un ruolo chiave per la formazione delle generazioni di domani.
Pur nella tutela dell’insegnante come lavoratore, sarebbe necessario un maggiore controllo sia dell’adeguatezza psicologica all’insegnamento che delle capacità e competenze dei singoli nella trasmissione della conoscenza e nello sviluppo del pensiero autonomo. L’introduzione di valutazioni reciproche da parte del professore sull’operato della classe e degli alunni sul professore, come già avviene in molte Università, anche se rimanendo uno strumento non vincolante, potrebbe essere utilizzato come indicatore.
Umberto Eco disse: «l'insegnante oltre che informare deve formare. Quello che fa di una classe una buona classe non è che vi si apprendano date e dati ma che si stabilisca un dialogo continuo, un confronto di opinioni, una discussione su quanto si apprende a scuola e quanto avviene di fuori». Forse è questo il punto da potenziare nel nostro sistema di istruzione, oltre che la lente attraverso cui leggere i numeri nel rapporto Ocse Pisa: la centralità del coinvolgimento dello studente e dello sviluppo di un’attitudine positiva all’apprendimento.
Non ultimo, il tema degli abbandoni scolastici e dell’alta percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) che rappresentano, con forti differenze regionali, circa il 26% dei giovani tra i 18 e 24 anni in Italia rispetto alla media OCSE del 14%. Ma c’è da chiedersi, quanti di questi finiscono realmente in un limbo di inattività e quanti invece sono intrappolati nella realtà di non tutela del lavoro in nero? Ricordiamo che nel 2017 erano 3 milioni e 700 mila le unità di lavoro a tempo pieno (ULA) in condizione di irregolarità per un valore complessivo di circa 79 miliardi, pari al 37,3% dell’economia sommersa.
Il quadro delineato da questi dati evidenzia nel nostro mercato del lavoro un’incapacità nell’allocare efficientemente le risorse. Più del 35% degli Italiani sono impiegati in un settore lontano da quello dei loro studi, il 18% sono extra-qualificati rispetto alle mansioni svolte e 21% sono invece sotto-qualificati, svolgendo attività fuori dalle loro competenze. Incapacità che viene percepita e si rispecchia anche nella comune percezione di una scarsa utilità dell’istruzione e forte incertezza sul futuro legata a qualsiasi corso di studi. Molti giovani risultano avere ambizioni inferiori e non in linea con il loro rendimento accademico: nella fascia con elevata media scolastica, solo tre studenti svantaggiati su cinque e sette studenti avvantaggiati su otto si aspettano di completare un’istruzione universitaria. Tra gli under 25, solo il 20% risulta avere fiducia verso il futuro e ancora meno sono coloro che tra 10 anni prevedono di avere un lavoro stabile, infine il 42% pensa che per avere successo dovrebbe lasciare l’Italia e trasferirsi all’estero.
Inoltre, se da una parte per gli stadi conclusivi di un percorso di formazione, gli ultimi anni in un istituto tecnico o professionale e l’università per chi prosegue gli studi, devono mirare a garantire una più diretta connessione con il mondo del lavoro e le sue necessità, dall’altra dobbiamo ricordare che è proprio dall’eclettismo del nostro sistema educativo che nascono la creatività e il “genio italiano”. Offrire un percorso didattico che spazi e comprenda molte materie, piuttosto che mirare fin da primi anni di scuola superiore alla specializzazione, permette agli studenti italiani di sviluppare una visione globale dei problemi dalla quale, poi, procedere più agilmente ad un’analisi di dettaglio.
Non auspichiamo per le nuove generazioni un sistema che si fondi solo sul senso del dovere e sull’apprendimento sotto pressione in un’affannosa corsa a primeggiare. Dobbiamo, invece, riflettere su un sistema che sì promuova l’impegno e la conoscenza, ma stimoli allo stesso tempo il senso critico e la comprensione della bellezza del sapere.