Quelle «dolci melodie inascoltate»:
due secoli senza Keats,
che noi moderni fatichiamo a capire

di Luca Bellardini

Heard melodies are sweet, but those unheard / Are sweeter, recita un celebre verso di Ode on a Grecian Urn. «Dolci sono le melodie udite, ma ancor più dolci sono quelle inascoltate». Siamo nel 1819, l’anno in cui John Keats compose tutte e sei le sue Odi: una dopo l’altra, con una breve interruzione nel corso dell’estate; l’apoteosi creativa di un letterato immenso che oggi è purtroppo ricordato — dal suo epistolario assai più che dalle poesie — come un giovincello dal grande cuore ma di salute cagionevole, tormentato da una malattia infettiva che finirà per ucciderlo — esattamente due secoli fa, venerdì 23 febbraio 1821 — nel cuore di Roma, all’attuale civico 26 di Piazza di Spagna. Il decadentismo dalle radici classiche — distinto da quello crepuscolare, che anticipò l’ermetismo novecentesco — riprenderà la suggestione del silenzio come “genitore” della fantasia, dell’animo che si sublima, dello spirito che si eleva: «Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; / Ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane», scriverà D’Annunzio ne La pioggia nel pineto. Il tema della fantasia non già come elemento consolatorio (Leopardi, per intenderci), bensì come autentica creatrice di una realtà “ulteriore”, è la cifra del Romanticismo europeo nelle sue molteplici forme.

Il che non significa che sia stato declinato sempre allo stesso modo: tutt’altro. Per alcuni vi si poteva giungere grazie al baleno dell’ispirazione, usando poi la conquista dell’assoluto per cambiare ciò che è relativo — dunque mutevole — sulla terra. La pensavano così i filosofi idealisti tedeschi innamorati dell’«idea di nazione» (Chabod) diffusasi proprio in quel periodo: anche Lord Byron, che combatté per l’indipendenza dei greci dall’Impero ottomano, aderiva a questa visione “eroica” della vita. Oggi essa è quasi invariabilmente attribuita all’intero movimento letterario, appunto esemplificata dai due maggiori personaggi byroniani — Don Juan e il giovane Aroldo — nonché dall’autore stesso. A ben guardare, il nazionalismo politico è la filiazione più diretta di questa concezione poetica: la democrazia liberale, ormai, giustamente ne diffida. Il passaggio dal superomismo dei singoli al trionfo di idee collettive che schiacciano la libertà degli individui è stato alla base della Grande Guerra, dei totalitarismi di matrice hegeliana (nazista, comunista, fascista), dei conflitti che hanno dilaniato i Balcani, il Medio Oriente e l’Europa orientale. Una vocazione “assoluta”, c’insegna la storia, si traduce spesso nell’imposizione dell’assolutismo.

Lord Byron voleva riportare ad Atene i fregi del Partenone esposti al British Museum, percependo come un’offesa alla civiltà il solo fatto che potessero trovarsi fuori dal luogo in cui erano stati generati (The Curse of Minerva). La diplomazia ellenica non ha mai smesso di pressare Londra affinché li restituisse, come se la collocazione di un’opera d’arte fosse il problema più grave della Grecia o potesse rilanciare le sorti di quel Paese. Invece una poesia di Keats — On Seeing the Elgin Marbles — esprime la medesima tensione verso l’alto, quella che unisce il genio dell’artista alla responsabilità di cui sono investiti gli dèi, dolendosi per il contrasto fra la grandezza dei tempi andati e la mediocrità del presente. Non emergono conclusioni politiche: e in questo giace non soltanto la vera natura delle opere del giovane spentosi a Roma — neoclassiche, anziché romantiche, almeno sul piano estetico — quanto, piuttosto, il motivo per il quale la sua letteratura merita molta più attenzione di quella dei contemporanei Byron e Shelley. Rispetto a quella di Keats, la poesia del secondo è più intimista nel linguaggio — sempre magniloquente, ma con brevitas — e soprattutto incline ai contenuti forti, politicamente espliciti. La produzione di Shelley è “romantica” nel senso in cui la intendeva il grande critico Mario Praz: caratterizzata da tinte fosche e sanguigne, imperniata su temi scabrosi che sfidassero le convenzioni morali come in Epipsychidion (elegia d’amore platonico a una ragazza entrata in convento: la Monaca di Monza arriverà pochi anni dopo…), quasi affascinata dalla violenza come nella tragedia The Cenci e nelle tante opere che descrivono la resistenza alle tirannidi (Prometheus Unbound, To Naples, The Revolt of Islam).

Il poeta del bicentenario, invece, era molto diverso. Sempre secondo Praz, il Romanticismo deve essere identificato con la lunga corrente anti-illuminista che va dai temi notturno-sepolcrali di metà Settecento (da cui il romanzo gotico) a quelli decadenti di fine Ottocento. Una svolta sarebbe stata impressa dal Marchese de Sade, l’aristocratico francese col gusto per l’orrido e la distruzione (delle persone tanto quanto dell’antico regime) che scrisse il suo capolavoro erotico — Le 120 giornate di Sodoma — mentre era prigioniero alla Bastiglia. È sufficiente leggere una singola poesia di Keats per capire quanto egli fosse lontano da questa tradizione forgiata dall’incontro fra la corrente “rivoluzionaria” e quella “reazionaria”, entrambe dionisiache. In quel tempo, appena uscita dalle guerre napoleoniche, l’Europa restava cupa e turbolenta: ma Keats fu orgogliosamente apollineo. Il che non significa affatto “scialbo”, né superficiale, sebbene così lo giudicassero molti suoi contemporanei che non ne sopportavano la verbosità (era, in realtà, ricchezza espressiva). Per apprezzarlo bisogna innanzitutto sottrarre al Romanticismo la sua aura sentimentalista, riportando quel movimento culturale alla sua vera dimensione.  

Chiariamo subito che in Keats non mancano i temi squisitamente romantici. Tali sono quelli de La Belle Dame sans Merci, epitome della donna ammaliatrice che ottenebra il raziocinio (… thee hath in thrall!; «ti ha messo in trappola!»), rivisitato in chiave assai meno “cortese” dell’originale quattrocentesco di Alain Chartier. Tali sono pure le suggestioni gotiche legate alle frequenti gite scozzesi (The Eve of St. Agnes) e al tema dell’amore impossibile, destinato a finire in tragedia (Lamia e Isabella, or the Pot of Basil, pubblicate insieme alla precedente: l’ultima ispirata alla novella boccaccesca di Lisabetta da Messina). In tutti questi componimenti ricorre il tema dell’amante audace, descritto come un cavaliere corazzato e pronto alla pugna (knight-at-arms). Ma questo non è il Keats più famoso, né quello migliore sul piano linguistico (ancorché indubbiamente pregevole). Ed è palese la differenza rispetto a Ode on a Grecian Urn, in cui il bold lover deve accontentarsi di vagheggiare in perpetuo — senza mai raggiungerla — colei che è infissa in una scena di ceramica, protetta dal tempo nella sua immutabilità (… for ever wilt thou love, and she be fair!, «Per sempre l’amerai, ed ella sarà bella!»).

Il Keats più compiutamente “romantico” è assai diverso da quello che nel tema della «fantasia» (fancy) aveva una specie di core business, per quanto declinato in maniera diversa — meno distaccata dalle «sciagure umane», per dirla con Foscolo — rispetto ai suoi predecessori neoclassici, Alexander Pope sopra tutti. A questo si associa il concetto di negative capability: l’impossibilità di descrivere fedelmente un’esperienza ai limiti delle emozioni umane, indefinita nello spazio e nel tempo; una chiara eco del «trasumanar» dantesco, che caratterizza il viaggio nel Paradiso. Un celebre esempio è in Ode to a Nightingale, forse il nec plus ultra della letteratura inglese in versi: la conclusione (Was it a vision? Or a waking dream?; «Fu una visione? O un lucido sogno?») giunge al termine di una straordinaria cavalcata in cui il protagonista è stato condotto dopo aver semplicemente udito un canto d’usignolo, intriso di felicità e proiettato all’eterno pur essendo destinato a rivelare la sua natura sofferente ed effimera (Thy plaintive anthem fades…; «Il tuo inno mesto si dissolve…»). Lo stesso canto che — scrive Keats — deve essersi “fatto largo” nel triste cuore di Ruth, che «s’ergeva in lacrime nel grano straniero», addolorata per la patria lontana: come la femme fatale riceverà un’incredibile attenzione dai preraffaelliti, così la figura dell’eroina biblica eserciterà una suggestione incredibile su Francesco Hayez, massimo esponente della pittura risorgimentale. Anche qui, due filoni di arte romantica legati sì dall’esaltazione delle identità, ma a partire da concezioni estetiche profondamente diverse.

C’è poi un altro aspetto della produzione di Keats che viene ingiustamente trascurato: il fatto che, nonostante la celebrazione del sogno e dell’irrealtà, egli non fosse affatto avverso alla scienza e al progresso. Forse per la sua formazione medica e la sua attività professionale (un po’ aiuto-chirurgo, un po’ farmacista), il giovane poeta non fu mai un oppositore dei cambiamenti sociali — a partire dalla sfera produttiva — portati dagli albori della rivoluzione industriale. È lecito domandarsi cosa avrebbe scritto nel poema che aveva intenzione di comporre a Roma e intitolato Sabrina, dal nome latino di quel fiume Severn oggi costellato dai reperti di quella fase pionieristica, come i ponti in ghisa: in un’opera di Milton (Comus), la ninfa Sabrina simboleggia la castità, l’orgogliosa resistenza alla seduzione maschile; ma è innegabile che due secoli fa il più lungo corso d’acqua inglese avesse già ceduto al fascino dirompente di un sistema economico che grazie all’operosità umana attraversava cambiamenti profondi. Lo stesso ingegno che in quegli anni produceva scoperte eccezionali in tutte le scienze: era l’«età della meraviglia», come nel titolo di un ottimo saggio sul tema (Richard Holmes, The Age of Wonder); e una pietra miliare dell’epoca resta l’individuazione del pianeta Urano nel 1781, celebrata da Keats in uno dei suoi piccoli capolavori. In On First Looking into Chapman’s Homer, l’eccitazione del bibliofilo che scopre un gioiello letterario — la più importante traduzione secentesca dell’Iliade e dell’Odissea — è paragonata, appunto, a un nuovo pianeta che «nuota» (swims) nel mare dell’intelletto umano (ken), ancora con un’eco dantesca («la navicella del mio ingegno», nell’incipit del Purgatorio). Fuor di metafora, Keats ammirava il desiderio di espandere la conoscenza, incurante di quello che sarebbe venuto dopo. È per questo che — nella medesima poesia — non solo esprime ammirazione per la sapienza degli antichi (Much have I travelled in the realms of gold; «Molto ho peregrinato nei reami dorati») ma addirittura celebra la spedizione di Hernán Cortés nel regno azteco, raffigurando un uomo «robusto» (stout) che si fa largo risalendo una montagna da cui ammirare la vastità dell’oceano. Siamo ben lontani dal duro monito sui pericoli della scienza che domina il Frankenstein di Mary Shelley, come pure dal discorso sulla fatuità del potere che il «viaggiatore da una terra antica» riporta nell'Ozymandias di suo marito Percy Bisshe.

Oggi cosa resta di Keats? Forse ben poco. I suoi tópoi — fantasia, conoscenza, bellezza — sembrano avere un ruolo marginale nella cultura contemporanea: il virtuale, esaltato dal lockdown, è in fondo l'opposto dell'immaginazione che scaturisce dal silenzio; la cancel culture, che pretende di riscrivere la storia, vorrebbe annichilire molte delle nostre conquiste più preziose. Alla contemplazione preferiamo l'invettiva; alla comprensione dei meccanismi più profondi che determinano il passaggio da una fase storica all'altra — come in Hyperion, dove i superbi titani vengono rimpiazzati dai titubanti signori dell’Olimpo — preferiamo la semplificazione manichea in cui tutto è buono o cattivo, amico o nemico. Non comprendiamo, dunque ci ritiriamo, quasi vergognandoci dei traguardi che la civiltà occidentale ha raggiunto nei secoli. A partire dalla bellezza, per Keats sinonimo di verità: preferiamo non ostentarla né seguirla; soprattutto non la celebriamo, né c’indigniamo per il brutto che impoverisce l’anima (e al quale siamo forse abituati).

Sembra quasi che la soluzione alla radical uncertainty sia la resa, anziché lo slancio vitale: non c'è spazio per chi ha piacere nell'essere «sempre desto» nonostante il «dolce tormento» connaturato all'esistenza umana, come nel sonetto Bright Star. Non ci arrendiamo alla nostra mutevolezza; non volgiamo più lo sguardo alle stelle per trovarvi pace e guardare con serenità chi abbiamo accanto (Still, still to hear her tender-taken breath; «immoto, per udire ancora il soffice suo respiro»), come nella poesia che dà il titolo al film biografico. Al contrario, fingiamo di sapere; abbiamo la presunzione di emettere sentenze definitive pur essendo ormai chiaro che non c'è libertà senza «dispersione della conoscenza». Un esempio di questo fenomeno è l'evoluzione del giudizio critico sul poeta del bicentenario: i suoi contemporanei non lo amavano; oggi non c'è più alcuno che ne discuta la grandezza. Resta, però, molto meno conosciuto di quanto meriterebbe. Due secoli dopo, rileggerlo — come per qualsiasi altro classico del «canone occidentale» — dovrebbe insegnarci a essere più orgogliosi della nostra cultura e più scettici sulla correttezza delle nostre idee personali, la nostra visione delle cose. Sembra un paradosso, ma è quello che appunto dà “sapore” alla vita. Ce l'ha insegnato quella di Keats, nonostante la sua brevità: possiamo esplorare i «reami dorati» anche quando la salute è la prima preoccupazione da cui siamo afflitti.