Creare valore nel tempo: dalle intuizioni di Luigi Arcuti ai successi di Intesa Sanpaolo

di Giulio Di Ciommo

Luigi Arcuti: Insieme si cresce. Scritti di banca e finanza, 1950-1998 (Fondazione 1563, edizioni Olschki, 2021) — a cura di Francesco Cesarini, Alfonso Iozzo e Francesca Pino — è un libro che ripercorre la storia e la straordinaria parabola intellettuale del banchiere torinese (1924-2013). Il messaggio dell’opera è chiaro: dovremmo riscoprire quella figura, perché trasmetterne i valori sarebbe alla base di una “saggezza” che in periodi particolarmente delicati per l’economia — come in questi ultimi anni — risultano indispensabili per il Paese.

Protagonista della fusione tra l’Istituto Bancario San Paolo di Torino e l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) compiuta nel 1997, nonché dai forti principî morali, Luigi Arcuti rappresenta il classico self-made man che si contraddistingue per determinazione e forza di volontà. Convito europeista, insieme a Guido Carli seppe intuire le esigenze dell’economia italiana dopo il «miracolo economico», quando il mondo appena globalizzato conosceva forti mutamenti tanto in campo finanziario quanto nella cosiddetta “economia reale”.

Per l’Italia quelli non furono certo anni semplici: tutt’altro! L’incertezza risultava cosa ordinaria, la stabilità quasi un mito. Eppure, l’Istituto San Paolo attraversò un’impetuosa trasformazione proprio grazie al dirigente torinese: non solo Arcuti costruì le basi per l’attuale Intesa Sanpaolo (ISP), ma contribuì anche allo sviluppo dell’investment banking di IMI, giungendo infine a un’incorporazione che un quarto di secolo fa poneva le basi per quello che oggi è il primo gruppo in Italia e tra i maggiori player europei.

Sappiamo che buon banchiere deve essere capace di ascoltare e osservare: Arcuti non faceva eccezione. Già negli anni Ottanta riconosceva come la disintermediazione nel credito e la tecnologia fossero i trend futuri, da cui sarebbero discesi una più forte intensità della concorrenza e una progressiva tendenza alla specializzazione. Sebbene il panorama del settore sia oggi profondamente mutato, l’innovazione in banca continua a presentarsi come uno strumento indispensabile e irrinunciabile, estremamente efficace per aumentare la produttività e mitigare i rischi (soprattutto quelli legati al mismatch nell’orizzonte temporale di raccolta e impieghi).

Sul piano strategico, le trasformazioni nel modello di business di San Paolo e il cambiamento dell’assetto societario in una società per azioni, anticipando di fatto la legge Amato-Carli (1990), gettarono le fondamenta per l’attuale ISP. Si attuava un marcato decentramento operativo per fronteggiare i costi rivenienti dalla pesante inflazione di quegli anni; ma, allo stesso tempo, l’uso degli sportelli si rivelava molto importante per conoscere l’ambiente e avvicinare la banca ai clienti, sostenendone la desiderata crescita. Infine, una sincera vocazione al pragmatismo e all’apertura internazionale fece la fortuna del banchiere torinese: dall’estero — specialmente nel Regno Unito — egli trasse ispirazione ottenendone chiari beneficî, allorché la piena consapevolezza delle differenze nel pensare e nel modus operandi furono il suo “bagaglio di ritorno” e ne influenzarono il successo.

Senza dubbio, le avversità di quegli anni — si pensi alla condizione della finanza pubblica — furono per lui un’opportunità: l’industria italiana, il sistema creditizio e i mercati mobiliari (in particolare quelli delle c.d. “cartelle fondiarie”, e più in generale dei titoli a reddito fisso) subivano gravi sconquassi a causa degli shock energetici. In più l’opinione pubblica — cosa che accade ancora oggi — mostrava un atteggiamento negativo nei confronti delle istituzioni, che — come definite da Carli e riportato nel libro — hanno assunto quel «…ruolo oscuro nella vita sociale». Piuttosto, come Arcuti ci ricorda, la ragion d’essere delle banche è quella di incanalare finanziamenti alle imprese e contribuire allo sviluppo economico, specialmente in un Paese industrializzato come l’Italia.

Non mancano i suggerimenti del dirigente alla politica industriale. Secondo Arcuti, lo Stato dovrebbe ridurre le barriere all’entrata nei mercati, in primo luogo tramite uno stimolo fiscale, favorendo così la liquidità degli stessi; analogamente, però, bisognerebbe incentivare l’autofinanziamento delle imprese, cioè il reimpiego produttivo degli utili non distribuiti. Inoltre, non essendo oramai più percorribile la strada del deficit spending per l’alta inflazione, l’intervento pubblico aveva — e ha — il compito di incoraggiare il risparmio previdenziale, che all’epoca risentiva negativamente della debolezza della lira. Infine, l’estero e la coesione con la Unione europea (all’epoca ancora CEE) sono una risorsa da cui attingere, vista poi l’espansione dell’operatività transfrontaliera: questo perché le imprese italiane, vulnerabili e ancora incerte sotto questo aspetto, risultano particolarmente esposte alla scarsità delle materie prime.

L’insegnamento di Arcuti, insomma, è un po’ il manzoniano «Le tribolazioni aguzzano il cervello» (I promessi sposi, cap. VI). L’epopea del grande banchiere non dovrebbe essere solo un “mito” inscritto nella storia, che magari i posteri finiscano per dimenticare, quanto piuttosto un modello sociale da cui trarre esempio. A ben guardare, per quanto il miracolo economico resti un ricordo, presente e passato non risultano poi così diversi (basti pensare alla recente fiammata inflazionistica).

In questa cornice, una dimensione più ampia di quella nazionale — europea, soprattutto — risulta l’ambiente naturale e indispensabile per la ripresa economica, affinché sia possibile creare valore nel tempo. Com’è certamente successo, d’altronde, in virtù delle operazioni che hanno unito San Paolo con IMI, ieri; e Intesa con UBI, oggi.