Il patto che non c'è

di Giovanni Lambri

Enrico Cisnetto, nel suo editoriale su Terza Repubblica, ha riportato a galla un tema di cui si discute da molto tempo, ma che tende troppo spesso a perdersi nell’andirivieni del dibattito politico: la questione del “partito che non c’è”, l’inesistenza e la nostalgia per una forza politica centrista, il cui compito dovrebbe essere quello di fungere da centro di gravità per governi costantemente instabili. In piena fase tre della pandemia, le forze politiche, che per inciso mai hanno smesso di scontrarsi nemmeno in piena emergenza sanitaria, sembrano più divise che mai e i continui rinvii delle decisioni più importanti non giovano affatto alla ripartenza del Paese. Non è un caso che proprio ora Cisnetto abbia ripescato dal cilindro un tema vecchio quanto la Seconda Repubblica italiana. Il problema è che anche la risposta che l’autore dà al presunto vuoto politico da colmare è antiquata e non al passo coi tempi. Cisnetto fa riferimento a un “partito che non c’è”, quasi ad augurarsi la nascita di una forza politica fresca e inedita che dia stabilità al sistema politico e coadiuvi le forze moderate ed europeiste. Insomma, un’unione tra Italia Viva, Azione e +Europa che possa puntare almeno al 10% nei sondaggi e cerchi di tenere in scacco le forze populiste. In realtà è ormai da decenni che i più intraprendenti ex democristiani propugnano la rifondazione di un partito cristiano-democratico centrista e garante dell’equilibrio politico. Quella di Cisnetto non è altro che la riformulazione in chiave laica di quella proposta. Si tratta però di una strategia che oltre a essere praticamente irrealizzabile - si vedano a tal proposito le liti e le divergenze tra i moderati italiani - è anche completamente anacronistica. Ma veramente in Italia quello di cui abbiamo bisogno in questo momento è la formazione di un nuovo partito, o coalizione, che mescoli identità e correnti diverse? Innanzitutto, il concetto stesso di un “partito che non c’è” sembrerebbe paradossale, se non assurdo, in un quadro politico come quello italiano, dove nascono partiti un mese dopo l’altro e dove il numero totale di competitor è uno dei più alti d’Europa. Ancora peggio se si considera che gran parte dell’immobilismo in Italia è ascrivibile proprio ai partiti politici, soprattutto a quelli più piccoli e marginali, che però, in un sistema parlamentare e proporzionale come il nostro, sono in grado di ricattare anche le maggioranze più ampie, poiché la sopravvivenza degli esecutivi dipende spesso da loro. Anche se potrà suonare lievemente populista come osservazione, è innegabile che la politica italiana sia schiava per certi versi dell’influenza dei partiti. Ci hanno raccontato che la Prima Repubblica era una partitocrazia imbevuta dello strapotere partitico. Probabilmente ci dovevano raccontare anche il proseguo della storia, e cioè che la Seconda Repubblica è rimasta tale e quale. Non sorprende dunque che la popolarità e la fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti sia ai minimi storici e si collochi più in basso di qualsiasi altra istituzione politica. È anche da questo che si evince che l’innovazione richiesta alla classe politica per essere in linea con le sfide sociali del nostro tempo non può provenire da dentro le istituzioni, ma da fuori. La classe dirigente italiana ha dato prova di essere di corte vedute e troppo legata al bottino elettorale per preoccuparsi di riforme strutturali o decisioni importanti. Le esigenze di riforma e di cambiamento, negli ultimi anni, sono sempre state intercettate prima dalla popolazione civile che dalla classe dirigente, spesso in affanno e annaspante. Le parti si sono ormai invertite: non abbiamo più a che fare con i partiti di massa novecenteschi, le “gabbie d’acciaio” come le definirebbe Max Weber, che inquadrano e disciplinano gli elettori. Abbiamo invece a che fare con degli elettori che si muovono in anticipo rispetto alla classe dirigente e la disciplinano, mettendola al corrente delle tendenze in atto. È successo con i Fridays for Future, in lotta per la protezione ambientale. È successo con il movimento delle Sardine, contro la politica dell’odio e delle fake news. È successo negli USA con Black Lives Matter, in opposizione al razzismo e alla violenza contro i neri. Proprio per questa ragione il mio suggerimento è di ricercare il tassello mancante nella società civile, o meglio nell’incontro tra la società civile e i centri del potere. Riscrivere cioè un patto sociale nuovo tra la classe dirigente e gli elettori in modo tale che questi ultimi possano sostenere il governo e gli equilibri istituzionali, in cambio di un contributo concreto alle reali richieste che essi pongono. Ma chi sono le forze sociali a cui dovremmo chiedere questo sforzo? I movimenti giovanili. Nessuno si merita di rifondare l’agenda politica italiana più dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze il cui futuro è stato ignorato per troppi anni. I giovani vanno coinvolti nella gestione della res publica perché sono coloro che la erediteranno in futuro e perché i giovani sono forieri di cambiamento. Non è un caso che gli esempi addotti in precedenza facciano riferimento a movimenti prettamente giovanili e di protesta nei confronti di problemi veri, ma mai completamente recepiti dalla politica. Ottenere il supporto di questi movimenti sarebbe fondamentale per una maggioranza che volesse stabilizzarsi e guardare al futuro. Basta ricordare quanto accaduto nel gennaio di quest’anno con le elezioni in Emilia-Romagna: il ruolo giocato dalle Sardine è stato centrale per la vittoria del Centro-Sinistra. Eppure, il cambiamento e la spinta non sono arrivati dall’interno, ma dall’esterno del sistema. Questo significa forse che i giovani e i loro movimenti si devono politicizzare e trasformare in forze parlamentari? Assolutamente no. Se lo facessero, si ritroverebbero immediatamente etichettati da una parte o dall’altra dello spettro politico e le loro rivendicazioni finirebbero schiacciate in mezzo agli intrallazzi del potere. Il loro obiettivo dovrebbe essere quello di catturare l’attenzione di qualunque partito politico fosse così saggio da ascoltare le loro istanze e stringere un accordo con loro, divenendo espressione della loro identità e della loro rabbia. Stringere un accordo significa mettere in scena un costante scambio di pareri e opinioni e coinvolgere le voci di persone che la politica ha ignorato in quanto minoritarie nella società, se non addirittura escludendole poiché prive, in virtù della tenera età, del diritto di voto. Il punto di svolta mi pare quindi non già una nuova formazione politica; bensì una nuova modalità di fare politica, meno autoreferenziale e più inclusiva. I giovani italiani sono tutt’altro che atomizzati e assenti dal dibattito pubblico e ne sono dimostrazione le numerose occasioni in cui essi, più o meno numerosi e più o meno battaglieri, sono scesi nelle piazze, non ultimo per protestare contro la irresponsabile gestione della riapertura delle scuole a settembre. Ma sono le forze politiche tutt’ora presenti che dovrebbero comprendere l’importanza di “capacitare” questi movimenti e dare loro qualcosa di più di un semplice assenso. Perché nessuna fazione politica ha mai chiesto un incontro o ha mai proposto un dialogo con i ragazzi dei Fridays for Future? Perché i partiti di Centro-Sinistra hanno ringraziato le Sardine per il loro meraviglioso lavoro, ma nessuno le ha veramente accolte o si è mai detto interessato a quel documento programmatico che i giovani leader avevano promesso di redigere? Mi sembra dunque si tratti di un “patto che non c’è” piuttosto che di un “partito che non c’è”. Di forze politiche ce ne sono anche troppe. Basterebbe che una o due avessero la lungimiranza di cambiare il loro modo di fare politica e stringere un accordo con quelle formazioni extra-parlamentari che, come capitato in più occasioni, possono veramente essere foriere di novità, idee e successi elettorali. Coinvolgiamo dunque i leader delle proteste ecologiste nell’arena politica, strutturiamo un patto programmatico che ruoti intorno alle loro istanze, quelle più ragionevoli e realizzabili logicamente, e magari forniamo loro una piattaforma per poter essere più visibili. Dialoghiamo con i movimenti di protesta femministi e antirazzisti, facciamo in modo che ci siano degli scambi intellettuali e un dialogo costante tra la base e le istituzioni dello Stato. Serve un modo nuovo di intendere il legame politica-società civile: la politica deve calarsi tra i giovani e i giovani devono calarsi ed essere attratti nella politica. Questo progetto può realizzarsi solo nel momento in cui i partiti bucheranno il guscio entro cui si sono trincerati e permetteranno a giovani e non giovani, esperti e meno esperti, di essere tasselli fondamentali della partita politica, lontano da quella “democrazia del pubblico”, per citare il filosofo Bernard Manin, che ci ha resi tutti spettatori passivi e applaudenti di uno spettacolo che va in scena indipendentemente da noi. Il “patto che non c’è” serve a riformulare questo legame e fare in modo che i cittadini, in particolare i giovani, divengano da spettatori a conduttori.

C’è tutta una fascia giovane della popolazione italiana che è dormiente, ma solo perché nessuno la convoca, nessuno le dà retta o ha tempo di ascoltare le sue esigenze. Risvegliare questa forza dormiente è l’obiettivo a cui tutte le forze politiche dovrebbero tendere. Qui non è questione di Destra o Sinistra, ma di capire quale partito, tra quelli esistenti, sarà così scaltro da rendersi conto per primo che quello che occorre in Italia non è una manovra di palazzo o un ennesimo coup de théâtre istituzionale, ma un approccio completamente diverso alla rappresentanza di interessi, che faccia dei giovani i protagonisti del cambiamento legislativo e dell’agenda dei lavori.

Chi capirà questo, sarà non solo protagonista di un’innovazione politica, ma probabilmente anche di un grande successo elettorale.