Il futuro dell’Unione

di Hugo Savoini e Federico Carli

Articolo pubblicato su Longitude #103, Aprile 2020


Solo due mesi fa tendevamo a considerare un problema esclusivamente cinese il coronavirus che oggi sta paralizzando il Vecchio Continente. Nel giro di poche settimane la malattia è entrata in casa nostra e si è diffusa con una velocità sconcertante, stravolgendo le nostre vite come mai negli ultimi 75 anni era accaduto. Lo scorso 24 gennaio in Germania è stato diagnosticato il primo paziente europeo infettato dal Covid-19, il 21 febbraio è stato identificato il primo focolaio nel Nord Italia e a cominciare da quel momento, l’intera Europa si è progressivamente fermata. All’Italia va il merito di aver fin da subito affrontato l’emergenza con serietà, rigore e di aver approvato misure sanitarie proporzionate all’entità del pericolo. Purtroppo, non può essere detto lo stesso per i molti paesi europei che hanno sottovalutato la minaccia e adottato un irrazionale approccio attendista.

È ormai evidente che gli effetti di questa grave emergenza sanitaria non si misureranno solo in base al numero di vittime, che purtroppo aumentano ogni giorno inesorabilmente (questo è il piano della salute, bene pubblico d’importanza suprema). Essa avrà ripercussioni sul piano economico, sul piano sociale, sul piano politico, sul piano stesso degli stili di vita e delle libertà individuali che si è affermato nei secoli in Occidente e che abbiamo il dovere di difendere. Pertanto, è necessario mettere sul tavolo con un senso di urgenza soluzioni che non si limitino al contrasto dell’epidemia (in questo momento fondamentali e prioritarie), bensì guardino oltre l’emergenza di carattere strettamente sanitario e affrontino in anticipo le conseguenze politiche, sociali, economiche e filosofico-giuridiche che già iniziano a manifestarsi. Le conseguenze della crisi colpiranno gli equilibri interni all’Italia, gli equilibri europei, gli equilibri geopolitici globali. Questi diversi piani e livelli sono tra loro interconnessi, e gli effetti su uno di essi si riverberano, in misura più o meno forte, sugli altri. L’Unione Europea e l’Italia sono particolarmente esposte. L’UE è reduce da anni di crescita asfittica e ha completamente smarrito lo slancio ideale che a lungo ne ha ispirato lo sviluppo: versava in uno stato di sofferenza profonda prima dello scoppio dell’epidemia, la quale adesso ne ha messo in piena luce i limiti e l’incompiutezza. L’Italia corre rischi gravissimi, poiché la recessione che si profila all’orizzonte mette a repentaglio la tenuta del nostro tessuto sociale indebolito da anni di stagnazione, bassi salari, assenza di prospettive di una vita migliore, lampante inadeguatezza dei gruppi dirigenti che hanno guidato il Paesi negli ultimi trent’anni. Con questa crisi sono venuti al pettine i nodi della trentennale, lenta decadenza italiana e dell’altrettanto lungo vuoto politico delle istituzioni comunitarie. Gli anni ‘20 non portarono fortuna nel secolo scorso. Occorre evitare gli errori del passato, lontano e recente: è giunto ora il tempo del linguaggio della verità e dell’azione.

Un’Europa carente e ingessata di fronte alla crisi del coronavirus ha manifestato tutti i suoi limiti, rischia la disgregazione. Per questo motivo bisogna trasformare la crisi in opportunità e arrovellarsi per trovare quegli strumenti che facciano riprendere con nuovo spirito il percorso europeo. L’Italia può e deve tornare a giocare un ruolo propulsivo, come fu all’epoca dei Trattati di Roma, all’epoca dello SME, all’epoca del Piano Delors, all’epoca di Maastricht. L’Europa ha bisogno del pensiero critico dell’Italia, se vuole recuperare slancio e progredire; l’Italia deve tornare a svolgere questo ruolo da protagonista, come ha saputo fare in passato.

Tra le molteplici questioni che si sono aperte con la pandemia Covid-19, appunteremo l’attenzione su quelle economiche e su quelle legate alla costruzione europea.  

Sul piano economico, la risposta politica alla crisi deve essere imperniata su una coraggiosa politica fiscale espansiva che attraverso la leva degli investimenti pubblici compensi il crollo della domanda e della produzione. Ovviamente la politica monetaria deve accompagnare e sostenere la politica fiscale, immettendo nell’economia la liquidità necessaria a sostenere la ripresa. La BCE non può tuttavia essere the only game in town. In Europa eccessive sono state le aspettative riposte nella capacità della Banca Centrale di risollevare l’economia; Pierluigi Ciocca ha chiarito che “la politica monetaria può tirare la corda per stroncare l’inflazione. Non può spingerla contro la recessione. Quando prevale il pessimismo sulle prospettive di profitto persino un tasso dell’interesse prossimo allo zero non giustifica l’investire per produrre merci che resteranno invendute.”

Come dimostrato in via definitiva dal grande economista inglese John Maynard Keynes, la migliore modalità di contrastare un crollo dell’economia reale, qual è quello che ci si prospetta dinnanzi, è rappresentata da un mix di politica fiscale espansiva, centrata sugli investimenti, e politica monetaria con essa coerente. Nel 2009, gli Stati Uniti, epicentro della crisi innescata dal fallimento di Lehman Brothers, seguirono questa strada, riuscirono a contenere la caduta del PIL (-2,6%) e già nel 2011 a tornare a livelli di reddito superiori a prima della crisi. L’Unione Europea deve evitare di ripetere l'errore gigantesco commesso nel 2009 quando non fu in grado di prevenire il crollo del PIL (-4,5%), per l’incapacità o forse per la mancata volontà di azionare un poderoso pacchetto di stimoli fiscali. Mentre il mondo reagiva alla grande recessione applicando intelligentemente i suggerimenti keynesiani, l’Europa continuava a discutere di vincoli contabili, pareggio di bilancio e riforme strutturali. L’economia europea ancora oggi ne paga le conseguenze.

La giusta istanza di equilibrio della finanza pubblica è stata anteposta, per volontà della Germania, fiancheggiata dagli altri paesi nordeuropei, a qualsiasi altra considerazione di carattere politico e sociale, addirittura al benessere degli stessi cittadini tedeschi. Gli avanzi di bilancio e di bilancia dei pagamenti che la Germania si ostina a perseguire, tagliando perfino i propri investimenti interni, ne sono la prova: la produzione della Germania per vent’anni è cresciuta soltanto dell’1,4% all’anno (la metà del proprio potenziale), essa ha ceduto e cede risorse reali preziose al resto del mondo (nell’ordine di 8 punti di PIL), essa si espone a subire ingenti perdite in conto capitale sulla propria posizione creditoria netta verso l’estero (oltre il 60% del proprio PIL). Dall’adozione di queste politiche non poteva che scaturirne una ripresa inevitabilmente lenta accompagnata, specialmente nel Sud Europa, da alti livelli di disoccupazione, bassi salari e crescenti disuguaglianze. Questi elementi spiegano la disaffezione dei cittadini al progetto europeo e, almeno in parte, le turbolenze politiche che il Vecchio Continente sta attraversando. Una domanda interna debole e principalmente trainata dalle esportazioni ha infine esposto la manifattura europea ai rischi derivanti dall’andamento del commercio internazionale.

Su questo quadro precario monta ora l’emergenza del coronavirus.

Insoddisfacente. Purtroppo questo è l’unico termine che si può utilizzare per definire la risposta che le istituzioni di Bruxelles e i nostri partner europei hanno fornito nei momenti in cui l’epidemia europea di coronavirus sembrava colpire solo l’Italia. Mentre la vita proseguiva normalmente nelle capitali di tutta Europa e il governo italiano chiedeva l’invio di forniture mediche per affrontare un’emergenza già molto grave, nessuno Stato Membro dava segni di quella solidarietà che è alla base dei Trattati istitutivi dell’Unione Europea. Assoluta assenza di coordinamento delle politiche, mancanza di cooperazione tra paesi, sottovalutazione della gravità dell’emergenza sanitaria e delle sue conseguenze economiche, politiche, sociali; è questa l’impressione che l’UE ha dato di sé. La solidarietà europea nei confronti dell’Italia è stata così scarsa da spingere il Ministro del Tesoro italiano a ringraziare Bruxelles per la concessione di una flessibilità di bilancio, che in realtà era prevista dai Trattati: dovuta, niente affatto “concessa” dalla Commissione Europea. Un ringraziamento fuori luogo, vista la situazione. A ciò si sono aggiunte le preoccupanti dichiarazioni del Presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, che hanno confermato la sensazione circa la mancanza di un comune spirito solidale e costretto il Quirinale a una replica pronta e decisa, in cui è stato rimarcato che “L'Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell'Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l'azione”. Alla fine, la BCE ha recuperato credibilità. Con la sua audace azione di lancio di un programma di acquisto di obbligazioni da 750 miliardi di euro, combinato con il Quantitative Easing già in corso, la Banca Centrale acquisterà oltre un trilione di euro di attività per il resto dell'anno. Questa mossa riduce drasticamente i timori di una replica della crisi dell'Eurozona. Sta ora ai politici dell'Ue l'onere di dare seguito con programmi di spesa a sostegno dei lavoratori e delle imprese preoccupate per il futuro. In poche parole, Bruxelles deve recuperare "L'Esprit Européen" dalle sue radici, pena la disgregazione.

Nonostante alcune recenti aperture del Cancelliere Merkel alla proposta del governo italiano per l’istituzione di “solidarity bond”, l’atteggiamento di fondo del governo tedesco non smette di destare preoccupazione. Successivamente all’identificazione del primo contagiato europeo a Monaco di Baviera e con l’emergenza sanitaria in atto in Italia, la voce della Germania è stata flebile. Il silenzio di Berlino ha avuto termine il 13 marzo, quando il governo ha presentato una prima risposta alla crisi, annunciando quello che la stampa ha definito “bazooka” da 550 miliardi a sostegno dell’economia reale. Purtroppo non si tratta di una misura di politica fiscale come in molti avrebbero sperato, ma di garanzie pubbliche per fornire liquidità alle imprese tedesche. Duole constatare che, nemmeno in questo gravissimo frangente, Berlino intende rinunciare al principio del pareggio di bilancio.  È tempo di invertire la rotta: La Germania è urgentemente chiamata a svolgere un ruolo di primo piano nel Vecchio Continente, non può sottrarsi alle sue responsabilità storiche.

In assenza di interventi radicali ci avviamo a entrare in recessione. Qualora pensassimo di contrastare l'avvitamento dell'economia esclusivamente attraverso trasferimenti settoriali e sgravi fiscali, ci limiteremmo a dispensare semplici e poco utili palliativi; soprattutto, perderemmo una nuova occasione per rilanciare l'Europa. La strada maestra per ottenere questo risultato passa per un duplice snodo:

1) assicurare il coordinamento cooperativo e solidale delle politiche economiche degli Stati membri, una Bretton Woods europea (già prevista nei Trattati);

2) impostare e realizzare piani pluriennali d'investimenti in infrastrutture a tutela della salute, del clima e dell’ambiente, del territorio, dell’istruzione e per l’adeguamento delle grandi reti infrastrutturali (materiali e immateriali), compiendo pienamente lo spirito dei Trattati.

Il mancato coordinamento cooperativo e solidale delle politiche economiche degli Stati membri è in contrasto con la lettera dei Trattati, l’Italia deve pertanto pretenderne l’applicazione. I Capi di Stato non possono più eludere questa questione, opportunamente sollecitati dal governo italiano.

Con riferimento al secondo punto, nell'attuale fase di emergenza, l'Italia ha la possibilità di farsi portabandiera in sede Ecofin di un programma di sostegno economico di ampio respiro, incentrato sugli investimenti e finanziato attraverso l’introduzione della “golden rule” e/o attraverso l'emissione di obbligazioni emesse dall’UE o da essa garantite. È giunta l’ora di distinguere tra spese in conto capitale e spese correnti, solo queste ultime devono essere considerate ai fini delle regole fiscali di Bruxelles (questa è la “golden rule di finanza pubblica”); è giunta altresì l’ora di creare un bilancio europeo di dimensione adeguata per la realizzazione di quelle infrastrutture sociali indispensabili alla vita dei cittadini dell’intero Continente. “Golden rule” e eurobond di scopo volti alla realizzazione di opere pubbliche di vitale importanza per l’Europa devono diventare la regola, anche per i tempi normali. Solo in questo modo sarà possibile dare un impulso concreto alla crescita e una risposta non illusoria ai problemi di disoccupazione e bassi salari che affliggono in modo drammatico alcune regioni europee. Lungi dal risultarne compromesso, il valore fondamentale dell'equilibrio di bilancio degli Stati sarebbe rafforzato da un simile progetto, entro il quale non troverebbero spazio spese correnti. Pertanto la diffidenza del blocco dei paesi mitteleuropei verso la tendenza alla spesa facile dei paesi mediterranei non avrebbe ragione di esistere.

L'emergenza sanitaria ed economica innescata dal Covid-19 può essere fronteggiata con appropriate soluzioni tecniche e dando impulso a un pensiero nuovo per l'Europa. Da questa considerazione nasce l’idea di lanciare eurobond mirati per specifici piani d’investimento e di introdurre la “golden rule”, due strumenti tecnici che, in realtà, perseguono una finalità politica: rilanciare su nuove basi un’Unione ingessata e inconcludente, in accordo con la volontà dei padri costituenti.  Come disse Helmut Kohl: "Non lo si ripeterà mai abbastanza. L'unione politica è la controparte indispensabile dell'unione economica e monetaria. La storia recente, e non solo quella della Germania, ci insegna che l'idea di sostenere nel tempo un'unione economica e monetaria senza unione politica è un errore". È giunto il momento di porre fine all'incompiutezza dell'UE. Non c’è alternativa, se non la disgregazione.