La ripresa dell’Italia passa attraverso la finanza: possibile se sostenibile
di Serena Palazzo
Ottobre 2020 è stato il mese dell’Educazione finanziaria e del Festival dello sviluppo sostenibile, due iniziative nazionali organizzate di concerto da istituzioni, imprese e cittadini creando una finestra privilegiata da cui osservare il mondo degli investimenti pubblici e privati, sotto la spinta di una situazione globale messa a dura prova da cambiamenti climatici e sociali ma soprattutto dall’attuale crisi pandemica.
Nel secondo trimestre 2020, secondo l’Istat, il reddito disponibile delle famiglie è diminuito del 5,8%: i consumi sono scesi dell’11,5%, mentre la propensione al risparmio è stata pari al 18,6%, in aumento di 5,3 punti rispetto al trimestre precedente, una tendenza tuttora in atto. Pertanto, tenuto conto anche del fattore addizionale Covid-19, gli italiani si confermano un popolo di grandi risparmiatori. Tuttavia, come emerso dall’ultimo rapporto annuale Consob, la maggior parte degli italiani instaura un rapporto piuttosto erratico con la pianificazione finanziaria, tale da ridurre il risparmio per lo più ad una forma di accantonamento precauzionale, priva di obiettivi di medio-lungo periodo chiari e programmatici. Il risparmio retail, a queste condizioni, difficilmente può essere destinato al soddisfacimento delle specifiche esigenze delle famiglie in quanto depauperato a monte da un vero e proprio scetticismo finanziario, giustificabile forse per l’assenza di un’adeguata preparazione in materia o comunque per l’impossibilità di reperire informazioni utili a tale scopo. Oggi la composizione di portafoglio dei “più audaci”, con contenuta propensione al rischio, è la seguente: aumentano gli investimenti in polizze assicurative e fondi pensione, scendono azioni e titoli di Stato. Sulla valutazione dei risparmiatori ha sicuramente inciso l’incertezza del contesto macroeconomico di riferimento e dei redditi da lavoro, che hanno modificato le necessità finanziarie delle famiglie a favore della liquidità.
La riduzione del reddito disponibile delle famiglie, accompagnata dalla forte caduta dell’attività produttiva delle imprese, accentua il rischio di stabilità finanziaria che vede anche gli investitori istituzionali impegnati quotidianamente in strategie di mitigazione del rischio e di recupero del valore delle attività finanziarie detenute, con tempi e intensità di ripresa piuttosto incerti e spesso quasi imprevedibili.
Nella ridefinizione dei portafogli della finanza privata s’inserisce il tema della sostenibilità sociale e ambientale, un must dei giorni nostri e al contempo un restyling di concetti passati, basti pensare ai principi socio-economici della civiltà greca fondati sulla coscienza filantropica. Sono trascorsi ormai cinque anni dal summit internazionale di Addis Abeba cui ebbe seguito, a Settembre 2015, la firma dell’Agenda 2030 per il raggiungimento dei Social Development Goals (SDGs). Oggi, più di allora, la sostenibilità chiama all’appello anche la finanza. Infatti si assiste al peggior momento storico per l’economia dopo la crisi del 2008 (-12,8% del PIL nel secondo trimestre 2020 secondo i dati Istat) ma al più fertile per la costruzione di una società sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, proprio grazie alle nuove opportunità d’investimento offerte dalla finanza. Dunque, la ripresa economica dell’Italia passa attraverso la finanza sostenibile.
A ricordarlo ci ha pensato l’evento nazionale di apertura del Festival dello sviluppo sostenibile dal titolo “Finanza pubblica per la ripresa economica: l’importanza dell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile” del 28 Settembre scorso, tenuto all’Auditorium Macro di Roma. L’evento è stato aperto dal portavoce dell’Alleanza, Enrico Giovannini, che ha sottolineato come “la trasformazione dei nostri sistemi economici e sociali ruoti intorno alla finanza”.
Oggigiorno l’incapacità degli investimenti tradizionali di adeguarsi autonomamente al nuovo corso del mercato post Covid-19 ha dimostrato che nell’analisi rischio-rendimento occorra considerare, tra i rischi specifici, anche quelli fisiologicamente legati alla società, quali la salute e l’ambiente. Già da qualche anno nel mondo della finanza l’acronimo Esg è divenuto sinonimo di sostenibilità. Sta per environment, social e governance, i tre nuovi indicatori utilizzati dai gestori nell’ambito degli investimenti socialmente responsabili (SRI).
Inoltre, di recente quattro docenti universitari italiani facenti parte dell’Esg International Research Group hanno dimostrato, passando al setaccio seimila fondi e ventimila asset, che i fondi Esg reagiscono meglio al rischio di collasso dell’intero sistema finanziario, ovvero a shock negativi del mercato come quelli odierni. Ciò in ragione di una differente strategia di diversificazione: i fondi Esg, rispetto a quelli convenzionali, escludono alcuni asset preferendone altri sulla base del rating Esg. Quest’ultimi sono meno esposti alla “rete” di forte correlazione dei fondi tradizionali. La perdita del valore di mercato dei fondi con basso rating Esg è 2,4 volte maggiore di quella di fondi con un più elevato rating Esg. Pertanto, il grado di resilienza degli investimenti Esg contribuisce a renderli quasi un “antivirus” della finanza ed infligge il colpo definitivo agli ultra-critici, i quali fanno propaganda della scarsa appetibilità di queste strategie.
D’altra parte, se il numero di investitori istituzionali che selezionano prodotti finanziari Esg cresce di anno in anno, nel mondo retail la quota rimane ancora esigua, anche se molti privati dichiarano che sarebbero entusiasti di “investire facendo del bene”. Infatti, secondo i dati più recenti pubblicati dalla Consob, il 60% delle famiglie italiane dichiara di non avere mai neppure sentito parlare di SRI, invece gli investitori istituzionali, i quali li collocano sul podio delle priorità, si scontrano quotidianamente con talune delle difficoltà principali legate alle nuove asset class, quali l’assenza di indicatori di sostenibilità standardizzati e di sgravi fiscali.
Allo stato attuale la sostenibilità ha prodotto obiettivi di medio-lungo periodo (SDGs), coi relativi indicatori target, e sta trovando progressivamente consenso nel mondo della finanza presso gli investitori privati (retail e istituzionali), tuttavia è ancora priva di una overview tattica. In un siffatto contesto, continuare a parlare di obiettivi di sostenibilità, senza mettere in campo tutti gli strumenti necessari per realizzarli, comporta il rischio di un “effetto frustrazione”: di qui il ruolo strategico della finanza pubblica.
La soluzione non è lo Stato imprenditore, piuttosto una partnership pubblico-privata in cui lo Stato sia in grado di veicolare le risorse disponibili sugli obiettivi SDGs. Infatti la funzione di indirizzo della finanza pubblica risulta fondamentale anche per scardinare qualsiasi “approccio evangelico” alla sostenibilità, giungendo a distinguere ciò che nella prassi è realmente propedeutico ad un paese sostenibile da ci che viceversa non lo è.
Gli interventi pubblici in risposta alla pandemia sono stati per lo più diretti alla protezione e alla salvaguardia del sistema socio-economico in essere piuttosto che alla transizione verso uno sviluppo sostenibile. Lo dimostra il Rapporto ASviS 2020 evidenziando come, negli ultimi cinque Decreti legge analizzati, solo 98 articoli (12%) hanno ad oggetto misure di trasformazione dell’attuale sistema socio-economico. Il posizionamento dell’Italia rispetto agli SDGs è quindi stagnante. I dati provvisori disponibili per il 2020 mostrano un arretramento per nove obiettivi (tra i più importanti povertà, salute, istruzione, lavoro, imprese e innovazione), un miglioramento per tre (consumo, produzione responsabile e cambiamento climatico), mentre per i restanti non è stato possibile valutare l’effetto della crisi. Tali risultati non stupiscono tenuto conto del congestionamento degli investimenti pubblici registrato nell’ultimo ventennio a favore della spesa corrente. Dunque, l’Italia ha bisogno di un’inversione di tendenza, di un nuovo paradigma di finanza pubblica in grado di riattivare gli investimenti pubblici e di traghettare i soggetti d’investimento privato nella medesima direzione. Una “condizionalità positiva” all’utilizzo delle risorse disponibili viene già dal piano europeo. Infatti, le macro-aree del Recovery Fund sono piuttosto chiare: inclusione sociale, green, de-carbonizzazione energetica etc. Esse, in altri termini, guardano al contenuto dell’Agenda 2030 e ciò trova conferma nel programma politico della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Il futuro dell’Italia passa per come verranno spese le risorse private e pubbliche orientate allo sviluppo sostenibile.
Pertanto allo Stato spetta il compito di intervenire. Occorrono: una nuova cultura finanziaria per la clientela retail, una regolamentazione chiara, sgravi fiscali a favore degli investitori istituzionali e, naturalmente, risorse pubbliche più orientate allo sviluppo. Con riferimento a quest’ultime saranno indispensabili competenze in termini di progettualità, che consentano di identificare, con trasparenza, chi debbano essere rispettivamente il beneficiario e l’attuatore delle risorse. A tal proposito è immaginabile che per le infrastrutture la regia vada all’amministrazione centrale e che invece il resto delle politiche, come quelle di inclusione sociale e riparo dalla povertà, siano organizzate a livello regionale se non addirittura comunale.
Sono questi i contenuti essenziali del nuovo approccio con cui la finanza pubblica pu supportare la sostenibilità, rendendola più che un valore sociale, ossia un valore aggiunto, un driver decisivo per l’uscita dalla crisi.