Brexit e il rebus dei rapporti Bce-Bank of England. Tutte le partite del 2019.
di Luca Bellardini
Secondo alcuni la questione è poco più che simbolica, risolvibile nel modo in cui una qualsiasi società affronta il recesso di un socio: restituendo la quota conferita e riducendo del medesimo importo il capitale. Ma se l’ente in questione è la Banca Centrale Europea e il recedente è il Regno Unito, la questione diventa più complessa. Con una partecipazione pari al 13,67% per un controvalore di 55,51 miliardi di euro (48,3 miliardi di sterline quando venne effettuato il versamento, che oggi ne valgono circa 49,5), l’istituto guidato dal canadese Mark Carney possiede nella Bce una quota superiore a quella di sette Paesi dell’Eurozona combinati fra loro. Infatti, sebbene Londra abbia rifiutato con decisione ogni ipotesi di ingresso nella moneta unica, il Regno Unito – forte di un hub finanziario di prim’ordine come la City – ha esercitato un’influenza notevole sulle politiche comunitarie in materia di credito e servizi d’investimento.
Spostandoci a Francoforte, però, le cose cambiano. Poiché le banche centrali che non sono parte dell’Eurosistema non partecipano ai risultati della Bce, dunque non percepiscono dividendi né sono chiamati a ripianare le perdite, la Bank of England ha spesso avuto una voce secondaria nella governance della (ex) Eurotower. Almeno formalmente si è infatti tenuta più o meno equidistante fra il gruppo dei “falchi” nordici – a guida tedesca – e quello delle “colombe” mediterranee – capeggiato dall’Italia del presidente Draghi –, ripiegandosi verso una politica monetaria interna che negli ultimi anni ha sposato una linea rigorista fatta di tassi elevati. In compenso ha beneficiato di una finestra privilegiata sulla politica monetaria unica.
Non sorprende quindi che tale corso sia proseguito dopo il referendum, foriero di turbolenze economiche – dettate dalla grande incertezza sul futuro delle relazioni Londra-Bruxelles – anche prima che il governo britannico invocasse l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, quello che appunto disciplina l’exit. Inoltre, non dovremmo sottovalutare il significato “segnaletico” di una simile politica: continuare sulla rotta intrapresa, nonostante i venti contrari, nella consapevolezza che il mare tornerà presto calmo. Come la BCE ha atteso a lungo per rallentare (il cosiddetto tapering) e poi sospendere (a partire dal 1° gennaio 2019) il programma di quantitative easing (Qe), così la Bank of England non ha rinunciato a moderare la domanda di moneta in un’economia i cui fondamentali sono giudicati ancora molto solidi, nonostante le fosche previsioni del Ministero del Tesoro: secondo il quale, nei prossimi 15 anni, il Pil calerebbe di quasi il 4%; o addirittura del doppio in assenza di un accordo strutturato fra le parti. E ora, nell’anno in cui la banca centrale inglese festeggia il ventennale dell’indipendenza dal governo, la sua posizione risulta sostanzialmente allineata a quella di Downing Street: la Brexit produrrà uno shock (tutt’altro che inatteso) nei primissimi tempi, poi le cose miglioreranno. Si tratta di una tesi difficilmente verificabile a priori, essenzialmente perché dipende dall’esito di un negoziato ben lungi dall’essere concluso.
Intanto non si può trascurare una delle più importanti partite finanziarie legate alla Brexit: la compensazione (clearing) e il regolamento (settlement) delle operazioni in derivati, per le quali ci si attende che la City conservi la sua primazia. Recentemente, facendo retromarcia rispetto a una posizione che aveva allarmato non poco la trading industry, l’Ue ha rinunciato a esercitare in futuro una vigilanza diretta sulle «controparti centrali» con sede nel Regno Unito, a patto che ovviamente l’ESMA (comunque coinvolta nella supervisione) riconosca come «equivalente» l’ordinamento britannico in materia. Per Londra si tratta di una chiara vittoria. Sarebbe stato difficile immaginare il contrario: in ambito finanziario, a fronte di un’architettura comunitaria ancora piuttosto farraginosa, la voce d’oltremanica risuona sempre potente. Senza contare che tutti gli scenari sono ancora aperti: dal catastrofico no-deal fino alla revoca della Brexit, passando per la permanenza nel Mercato unico secondo il modello norvegese.
Fatto sta che il prossimo 1° gennaio inizia una nuova fase delle politiche di Francoforte, con l’addio al Qe e una possibile ripresa delle operazioni di mercato aperto (outright monetary transactions). Il 29 marzo, trascorsi i due anni previsti dall’articolo 50, per il Regno Unito sarà il giorno della verità. Comunque vadano le cose, il 2019 si preannuncia come un anno complicato per i banchieri centrali di tutto il Vecchio continente.