La cultura dello sviluppo

di Federico Carli

Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno (03.12.2015)


Per formulare una strategia in grado di affrontare con successo una sfida difficilissima è necessario distinguere le due questioni, definirne l’ordine di priorità e identificare gli strumenti con cui operare su vari livelli per perseguirne con coerenza la soluzione. Dagli anni Novanta l’economia italiana ha ristagnato, collocandosi su un sentiero di mediocre sviluppo, pari all’1,4% in media d’anno, per il periodo 1992-2007 (0,5% per anno considerando soltanto il periodo 2000-07): molto inferiore a quelli storicamente sperimentati dall’Italia repubblicana e significativamente al di sotto di quelli, pur bassi, raggiunti dai nostri principali partner europei nello stesso arco temporale. Negli ultimi due decenni l’economia italiana non ha saputo esprimere un soddisfacente andamento della produttività, fattore chiave per spingere verso l’alto lo sviluppo di lungo periodo, accrescere la competitività del sistema e creare lavoro. A questo problema di trend se ne è aggiunto un altro, gravissimo, congiunturale: uno spaventoso vuoto di domanda, commisurato in dieci punti di PIL dissipati dal 2008, che, esclusi i due periodi bellici, non ha precedenti nella storia dell’Italia unita. Crescita e ripresa, spesso confuse, rappresentano i due obiettivi sui quali la politica economica deve orientare tutti gli sforzi. La recessione è tecnicamente finita nel primo semestre 2015, tuttavia la ripresa, favorita dal contesto internazionale, è fragile, insufficiente a creare le condizioni per recuperare in un orizzonte ragionevole il terreno perduto, per rafforzare il sistema produttivo, per ridare una concreta prospettiva di occupazione alle giovani generazioni. Pertanto colpisce la polemica che si è innescata tra sostenitori e detrattori del governo intorno a pochi decimali di espansione del prodotto previsti per l’anno in corso, in base ai quali vengono distinti gli ottimisti (coloro i quali prevedono una flebile ripresa, poco superiore allo 0,9%) dai pessimisti (coloro i quali prevedono una ripresa ancor più modesta, dello 0,7%). È parimenti stupefacente che, dopo oltre venti anni di ristagno, dopo una contrazione di PIL del 10%, dopo una caduta degli investimenti del 30% rispetto a prima della crisi, la politica sembri accontentarsi di incidere sul rilancio dell’economia soltanto per decimi di punto. Occorre recuperare la cultura dello sviluppo che ha consentito all’Italia di risollevarsi dalle rovine del fascismo e della guerra. La politica e la polemica dello “zero virgola” non sono all’altezza di un Paese che in un’epoca non lontana ha saputo esprimere una classe dirigente in grado di porre le condizioni affinché la vivacità delle forze produttive – imprenditori e lavoratori – facesse crescere l’economia a un tasso prossimo al 6% l’anno per oltre due decenni, preservando la stabilità della moneta. Tra il 1949 e il 1969 il reddito degli italiani si è triplicato e il Paese è entrato nel ristretto novero delle nazioni ricche. La polemica dei decimali in cui si cimentano sostenitori e detrattori del governo, per trarne qualche elemento di propaganda utile alla propria causa, trasmette ai cittadini la sensazione che si sia perduta la cultura dello sviluppo che aveva animato l’Italia negli anni della ricostruzione e di cui ci sarebbe oggi bisogno per stimolare una ripresa tale da colmare il vuoto di prodotto patito dallo scoppio della crisi finanziaria e a ricollocare l’economia su un sentiero di crescita di lungo periodo che permetta di tornare a considerare il nostro un paese ricco di futuro e di opportunità. Il tentativo di recuperare la cultura dello sviluppo impone di ricalibrare gli obiettivi di una politica che continua ad apparire timida e attorno ai quali attualmente s’incentra la gran parte del dibattito economico – 1,3/1,5% per il 2016 –, tassi palesemente insufficienti a risolvere i problemi del Paese, che continuano a esporre la ritrovata espansione del reddito ai rischi della congiuntura internazionale e che un tempo sarebbero stati definiti non crescita ma stagnazione. Il miglioramento del clima di fiducia delle ultime settimane dimostra che gli italiani sono pronti a cogliere i segnali positivi del mercato e che è possibile orientarne le aspettative per ridare slancio al sistema. È pertanto giunto il momento di rivolgere l’attenzione non già alla direzione – al segno – della traiettoria dell’economia, bensì all’intensità e al ritmo con cui essa procede. Occorre formulare e iniziare a mettere in atto una credibile strategia per lo sviluppo che, operando su vari livelli (impresa, infrastrutture, finanza pubblica, stimoli concorrenziali, cornice giuridica, amministrazione, istruzione-conoscenza, Mezzogiorno, Europa), consenta alle forze vive del Paese di esprimere tutta la propria potenzialità, imprimendo, ben oltre le attuali stime, un rinnovato vigore ai tassi di crescita dell’Italia.